sabato 13 giugno 2015

Abbiamo 5 anni per smettere di costruire centrali a carbone e macchine a benzina

Da “Motherboard”. Traduzione di MR (via Alexander Ač)

Ecco le spaventose implicazioni di uno studio di riferimento sulle emissioni di carbonio: nel 2018, nessuna nuova auto, casa, scuola fabbrica o centrale elettrica potranno essere costruite da nessuna parte nel mondo, mai più, a meno che non siano o sostituzioni di altre vecchie o a impronta di carbonio zero. Altrimenti le emissioni di gas serra spingono il riscaldamento globale oltre i 2°C di aumento della temperatura in tutto il mondo, minacciando la sopravvivenza di molte persone che attualmente vivono sul pianeta. Tutti gli esperti di clima vi diranno che ci troviamo all'interno di un bilancio di carbonio molto ristretto – cioè che si possono pompare nell'atmosfera una quantità definita di biossido di carbonio prima che il clima globale si surriscaldi. Abbiamo già riscaldato le temperature di 0,85 °C dai livelli preindustriali e il numero aumenta ogni anno. Mentre nessuno pensa che i 2°C siano sicuri di per sé, è più sicuro che andare ancora più in alto e correre il rischio che il riscaldamento diventi una spirale completamente fuori controllo. Lo scorso anno, l'ultimo rapporto del IPCC ha stabilito il bilancio globale di carbonio per la prima volta. Ha essenzialmente dichiarato che a partire dal 2014, il carbonio che possiamo permetterci arriva a circa 1.000 miliardi di tonnellate di CO2. In altre parole, le nostre auto, fabbriche e centrali elettriche possono emettere solo 1.000 miliardi di tonnellate (1.000 Gt, o gigatonnellate) di CO2 nell'atmosfera se vogliamo avere una possibilità più alta del 50% di mantenere il nostro clima al di sotto dei 2°C di riscaldamento.

Anche considerando che l'umanità ha pompato 36 Gt di CO2 nell'atmosfera solo lo scorso anno, 1.000 Gt sembra ancora una grande quantità. Potrebbe anche sembrare che ci avanzi dello spazio. Forse no. Una nuova ricerca mostra che potremmo non aver fatto attenzione all'intero quadro delle emissioni di CO2. Abbiamo contato solo le emissioni annuali e non il fatto che costruire una nuova centrale a carbone o a gas è in realtà un impegno a pompare CO2 per il lasso di vita di una data centrale – che di solito va dai 40 ai 60 anni. Queste emissioni future sono conosciute come 'impegno di carbonio'. Un nuovo studio ha conteggiato gli impegni di carbonio di tutte le centrali a carbone e gas guardando le loro emissioni annuali di CO2 e l'attuale età. Lo studio ipotizza una vita operativa di 40 anni. Una centrale a carbone di 38 anni avrà delle emissioni future di gran lunga inferiori, quindi un impegno di carbonio inferiore di una costruita oggi. Lo studio, “Conteggio degli impegni di emissione di CO2”, ha determinato che la maggior parte delle nuove centrali elettriche che sono entrate in funzione nel 2012 hanno un impegno di carbonio molto ampio – 19 Gt di CO2. Costruire nuove centrali elettriche significa più impegni di carbonio che intaccano il nostro bilancio di carbonio per i 2°C. Costruiamo sufficienti centrali  a carbone giganti oggi e le loro emissioni future vincoleranno l'intero bilancio, senza lasciare spazio a qualsiasi altra fonte di emissione di CO2. Nel frattempo, il tasso al quale le nuove centrali vengono costruite supera di gran lunga quello della chiusura delle vecchie centrali. Molte centrali a carbone degli Stati Uniti funzionano per più di 40 anni; la più vecchia ha attualmente circa 70 anni. “In tutto il mondo, abbiamo costruito più centrali elettriche a carbone nell'ultimo decennio che in qualsiasi altro decennio precedente e le chiusure delle vecchie centrali non stanno tenendo il passo con questa espansione”, ha detto il coautore Steven Davis dell'Università della California di Irvine.


Immagine: Flickr

Impegno di carbonio delle centrali elettriche a combustibili fossili: 300 Gt
Nello studio, Davis e il coautore Robert Socolow dell'Università di Princeton hanno calcolato che l'impegno del carbonio delle centrali elettriche a carbone e gas risulta essere molto grande – più di 300 Gt.

Impegno di carbonio non legato a centrali elettriche: 400 Gt
La realtà dell'impegno di carbonio vale per ogni infrastruttura che brucia combustibili fossili, compresi edifici adibiti ad uffici e case che usano riscaldamento a gas o automobili ed aerei che bruciano combustibile per i jet. Tutti hanno una vita operativa di diversi o molti anni durante i quali emetteranno CO2 da adesso a quando vengono 'pensionati'. Queste emissioni future contano a loro volta come impegno di carbonio. In un altro studio in arrivo, Davis ha calcolato gli impegni di carbonio di altre fonti di CO2, compreso da trasporto, industria, settori commerciale e residenziale. Davis stima che che già dal 2013 questo impegno di carbonio superava le 400 Gt. Insieme all'impegno delle centrali elettriche di 300 Gt disposte nell'attuale studio, si tratta di più di 700 Gt di impegni di carbonio su un bilancio globale di carbonio di 1.000 Gt. Ciò lascia meno di 300 Gt per le future centrali elettriche, acciaierie, cementifici, edifici e altre cose che bruciano combustibili fossili. Agli attuali tassi avremo usato la rimanenza del bilancio in soli 5 anni. Eccone la composizione:

Emissioni annuali stimate 2014-2018: 200 Gt
Le emissioni globali di CO2 da tutte le fonti sono state di 36 Gt nel 2013. Le emissioni annuali sono cresciute ad un tasso del 2-3% all'anno. Senza grandi sforzi per ridurre le emissioni, verrebbero emesse altre 200 Gt di CO2 fra il 2014 e il 2018.

Nuovi impegni di carbonio 2014-2018: 100 Gt
Davis e Socolow hanno determinato che gli impegni di carbonio da parte delle nuove infrastrutture che bruciano combustibili fossili saranno in media almeno 20 GT all'anno, un totale di 100 Gt in cinque anni.

300 + 400 +200 +100 = 1.000 Gt di carbonio bloccate per il 2018
A meno che le centrali a carbone e a gas o le grandi fonti di CO2 vengano chiuse prima della fine del loro ciclo di vita, il bilancio complessivo di 1.000 Gt di carbonio sarà pienamente assegnato intorno al 2018. Nessuno lo noterà, perché le cose non saranno né sembreranno molto diverse da oggi. Il CO2 è simile ad un veleno lento e transgenerazionale. Gli impatti climatici dell'esaurimento del bilancio di carbonio non saranno percepiti fino al 2030-2040  e sentiti per molto tempo dopo. Anche gli esperti di clima non lo noteranno tanto, perché le emissioni annuali di CO2 sono state il solo focus del processo dei paesi e delle Nazioni Unite per affrontare il cambiamento climatico, ha detto Davis. “E' come guidare sull'autostrada e guardare solo dal finestrino laterale”, mi ha detto Davis. I politici, i capi delle imprese, gli investitori, i pianificatori, i burocrati e una gran quantità di altre persone dovrebbe guardare davanti e fare attenzione alla dura realtà degli impegni di carbonio. Se i calcoli di Davis e Socolow sono giusti, significa che non può essere attivata nessuna centrale a carbone o a gas dopo il 2018 a meno che non sostituisca centrali che chiudono. Ciò significa bloccare le dimensioni della flotta mondiale di automobili e i settori industriale e commerciale, a meno che non aumenti la loro efficienza energetica. E così via. Il fatto che gran parte dell'infrastruttura attuale e futura porti con sé enormi impegni di carbonio è palesemente ovvio, ma riceve poca attenzione.

Non si risolve un problema peggiorandolo
“Se si costruisce, ci saranno emissioni anno dopo anno. Questa dovrebbe essere una parte fondamentale della decisione di costruire la maggior parte delle cose”, ha detto Davis. Ignorare la realtà degli impegni di carbonio significa che stiamo investendo pesantemente in tecnologie che peggiorano il problema, ha detto. “Abbiamo nascosto a noi stessi quello che sta succedendo: un futuro ad alto tenore di carbonio è implicito negli investimenti di capitale del mondo”, ha detto il coautore Robert Socolow. Qualsiasi piano o strategia per tagliare le emissioni di CO2 deve dare una prominenza di gran lunga maggiore a quegli investimenti. Adesso i dati mostrano che “stiamo abbracciando i combustibili fossili più che mai”, mi ha detto Socolow. Cosa possiamo fare quindi per cominciare a prepararci per un bilancio di carbonio strapieno? Per prima cosa dobbiamo smettere di costruire centrali che dipendono da combustibili fossili. Sorprendentemente, sembra che l'Australia sia pioniera in questo, nonostante il recente ritiro della sua pionieristica carbon tax. Grazie all'adozione diffusa di energia solare su abitazioni ed aziende, l'uso di elettricità del paese è in netto declino. Per la prima volta nella sua storia, non sarà necessaria nessuna nuova capacità elettrica alimentata a carbone o a gas per mantenere l'offerta nei prossimi 10 anni, secondo l'Operatore del Mercato Energetico Australiano. Anche la Germania sta adottando rapidamente fonti di energia pulita come eolico e solare, in modo da evitare di costruire centrali a carbone o nucleari. Poi, abbiamo bisogno di pensare di soddisfare la domanda di energia migliorando l'efficienza, piuttosto che costruendo più potere di generazione elettrica. Sono possibili miglioramenti potenziali dell'efficienza energetica del 50% in molti settori e in molti paesi, ha detto Socolow e potrebbero ridurre il numero di centrali elettriche a combustibili fossili. Gli Stati Uniti sono i re dello spreco energetico secondo la maggior parte delle stime. Questo costa agli americani 130 miliardi di dollari all'anno, secondo la Alleanza per Risparmiare Energia. Ma nonostante il potenziale per riduzioni dei costi e delle emissioni, i governi quasi ovunque mettono quasi tutti i loro sforzi nella ricerca energetica per trovare nuove fonti di energia come nuove centrali piuttosto che aiutare a sviluppare auto, edifici e elettrodomestici energeticamente efficienti. Il loro studio internazionale del 2012 ha scoperto anche che migliorare l'efficienza energetica fornisce di gran lunga il miglior rapporto qualità-prezzo per la sicurezza energetica, per il miglioramento della qualità dell'aria, per la riduzione degli impatti ambientali e sociali e per la riduzione delle emissioni di carbonio. Tuttavia, i miglioramenti dell'efficienza richiedono tempo e c'è poco tempo prezioso per far sì che i tagli alle emissioni di CO2 rimangano al di sotto dei 2°C, ha detto Socolow. Mentre si rifiuta di dire che un pianeta di 2°C più caldo sia inevitabile, Socolow ha detto che tutti gli sforzi per ridurre le emissioni devono essere intrapresi il prima possibile: “3°C è molto meglio di 5°C, la strada sulla quale ci troviamo attualmente”.

mercoledì 10 giugno 2015

Pensieri sul futuro: estinzione per la specie umana?


Di Giorgio Nebbia (nebbia@quipo.it)


Poche cose hanno attirato l’interesse degli esseri umani come l’interrogarsi sul futuro: quanti abitanti può “sostenere” il nostro pianeta ? ci sarà cibo e acqua e energia per tutti ?

Come è ben noto, una popolazione di esseri viventi animali, e quella umana è una di queste, vive ricavando dall’ambiente dei beni materiali, alcuni rinnovabili come l’acqua o i vegetali, altri non rinnovabili, come il carbone, altri trasformati dalla “tecnica”. Per il principio di conservazione della massa e dell’energia tutto quanto “entra” in un processo, come quello vitale, esce nella stessa quantità ma “degradato”, non più utilizzabile come tale, sia energia, o gas, o acciaio e carta, eccetera, e addirittura sotto forma di scorie dannose per l’ambiente.

Dal momento che, nel caso del pianeta Terra, l’ambiente è fisicamente limitato, a mano a mano che aumenta la popolazione, diminuisce la quantità di beni disponibili e peggiora la “qualità” dell’ambiente stesso. Tutte i discorsi sull’ecologia, la decrescita, eccetera, hanno la loro base nelle leggi della vita che si studiano nei corsi di biologia nel capitolo sulla dinamica delle popolazioni, elaborata negli anni trenta del Novecento dagli studiosi Lotka, Volterra, Kostitzin, Gause.

Tali leggi spiegano che, in un ambiente di dimensioni limitate, il numero degli individui di una popolazione dapprima cresce rapidamente, quando sono abbondanti cibo e spazio; a poco a poco tale numero cresce più lentamente (cioè diminuisce il tasso di crescita percentuale annuo). Il rallentamento della crescita di una popolazione vivente è direttamente proporzionale alla diminuzione della massa di beni materiali disponibili, dovuta alla sottrazione delle risorse naturali dall’ambiente, e alla conseguente crescita della massa di rifiuti tossici immessi nell’ambiente.

Il tasso di crescita r di una popolazione P diminuisce, quindi, a mano a mano che diminuisce la massa dei beni disponibili K, e che cresce l’intossicazione dell’ambiente, espressa da un termine a∫Pdt che dipende dal numero di individui che hanno occupato in passato tale ambiente, moltiplicato per un coefficiente a corrispondente all’inquinamento lasciato da ciascuno di loro:

dP/dt = rP [1 – P/K – a∫Pdt]

Questa equazione integrodifferenziale è stata proposta nel 1934 dal grande matematico Vito Volterra. L’intera storia è raccontata nel libro di Umberto D’Ancona, “La lotta per l’esistenza”, Torino, Einaudi, 1940, che riassume il lavoro di Volterra e quello di Vladimir Kostitzin, il quale ha approfondito lo stesso problema negli stessi anni.

Naturalmente anche la disponibilità di risorse K è funzione della popolazione P proprio come lo è il degrado ambientale qui schematizzato come “inquinamento”. E anche l’intossicazione ambientale dipende dalla capacità della natura di assorbire le sostanze generate dalle attività umane e diminuisce quando diminuisce la popolazione P (gli oceani assorbono parte dei gas generati in precedenza, la radioattività di origine antropica lentamente decade, eccetera).

A questo sistema di equazioni integrodiffenziali si è ispirato, trent’anni dopo, Jay Forrester nella sua analisi dei sistemi utilizzata per le “previsioni” di possibili futuri esposte nel libro del Club di Roma sui “Limiti alla crescita”.

Con un poco di calcoli è facile vedere che, nell’ambiente ipotizzato, per qualsiasi valore positivo di r, K e a, una popolazione P, dopo avere raggiunto un massimo diminuisce e poi scompare. Volterra nel 1938 ha intitolato un suo saggio proprio: “Crescita della popolazione, equilibrio e estinzione”. A questo punto la disponibilità delle restanti risorse naturali resterebbe (abbastanza) stabile e l’intossicazione e il degrado dell’ambiente rallenterebbero e anzi diminuirebbero.





Per gli umani la rapida crescita dalla popolazione è stata resa possibile dagli eventi che, dal Seicento in avanti, hanno assicurato, anche con le scoperte geografiche, a un crescente numero di persone una crescente disponibilità di spazio in cui abitare, di “risorse naturali” da “sfruttare” per ricavarne cibo e di beni materiali.

Da un certo periodo in avanti, diciamo dalla seconda metà del Novecento, si sta osservando un rallentamento del tasso di crescita della popolazione umana (non del numero totale degli individui), una “transizione demografica” dovuta al fatto che in molti paesi industriali le donne lavorano, che la prolificità non è più un valore e che mancano le abitazioni. Al rallentamento del tasso di crescita r della popolazione umana P contribuiscono anche (a) la crescente difficoltà di procurarsi cibo, energia, materie prime e merci, a causa dell’impoverimento delle riserve di risorse naturali (petrolio, terre fertili, foreste, minerali), e (b) il peggioramento della “qualità” dell’aria, delle acque, del suolo e degli spazi abitabili in molti paesi a causa del continuo aumento di agenti inquinanti e di danni ambientali che ogni anno si aggiungono a quelli dovuti alle generazioni precedenti.

Il rallentamento della crescita della popolazione umana comporta anche continue modificazioni non solo del numero totale di individui, ma soprattutto della loro distribuzione per età, con un aumento degli “anziani” e una diminuzione dei “giovani”, il che significa una diminuzione della frazione in età lavorativa e una modificazione del lavoro, dalla produzione di oggetti ai servizi. Fenomeni vistosi nei paesi industrializzati ma che si manifestano ben presto anche in quelli oggi poveri.

Del resto anche una ipotetica società stazionaria, in cui il numero di nati fosse uguale al numero dei morti, non sarebbe sostenibile a causa della diminuzione delle risorse naturali da cui trarre beni materiali e dell’intossicazione dell’ambiente.

Mi rendo conto che la prospettiva del declino di una popolazione, dei consumi, della disponibilità di risorse è sgradevole per una società basata sul principio che soltanto più persone-consumatori e più beni materiali assicurano più ricchezza monetaria, considerata l’unico indicatore del benessere, cioè dello stare bene; la massa di scorie che inevitabilmente accompagna questo cammino è solo un secondario ”irrilevante” disturbo nel cammino della crescita. Tale società si affanna a diffondere la certezza che la scienza, la tecnologia e la stessa crescita della ricchezza qualche soluzione troveranno, il che è poco credibile alla luce sia delle leggi della vita sia della storia dei viventi.

La constatazione che anche la nostra specie umana ubbidisce alle stesse leggi di crescita e declino di tutti gli esseri viventi è motivo non di disperazione, ma di stimolo a cercare il “benessere” non nel continuo sfruttamento e degrado del pianeta per il possesso di più merci, ma nella solidarietà, nel rispetto degli altri, nel vivere “bene”. Del resto perfino il Papa Francesco, in una “lettera” al giornalista Scalfari nell’estate del 2013, ha scritto che un giorno la nostra specie finirà. Quando e come questo avverrà per la popolazione umana --- centinaia, migliaia di anni ? --- non è possibile sapere: innumerevoli specie viventi sono comparse, cresciute e scomparse nella Terra; non scomparirà comunque la vita, almeno fino a quando il Sole diffonderà un po’ delle sue radiazioni di luce e energia.

lunedì 8 giugno 2015

DRAGHI 2: un archetipo fra passato e futuro.


di Jacopo Simonetta

In un precedente post ho preso spunto da un “pesce d’Aprile”  pubblicato su Nature per parlare del ritorno dei draghi, non certo in quanto animali, bensì in quanto simbolo delle forze indomabili della
Natura.

Circa un mese dopo, mi sono capitati sottocchio ben tre articoli, stavolta serissimi, sull'origine e la diffusione del mito del Drago.    L’autore, Julien d’Huy, uno studioso di mitologia ed archeologia africana, ha utilizzato i metodi della tassonomia statistica per costruire un’ipotesi circa l’origine e la diffusione globale del mito del Drago sulla base delle citazioni letterarie antiche e delle tradizioni dei diversi popoli.   I risultati sembrano confermati dagli scarsi dati archeologici e linguistici disponibili.

Secondo l’autore, il mito avrebbe origini paleolitiche, nella forma di un serpente gigantesco capace di volare, dotato di corna e, forse, anche di capelli umani.   In origine, si sarebbe trattato di uno spirito/divinità legata alle acque, in particolare alle sorgenti, e capace di scatenate tempeste.   Nella ricostruzione del d’Huy, il mito avrebbe avuto origine in Africa settentrionale e si sarebbe diffuso dapprima verso est e poi in praticamente tutto il mondo, seguendo le varie ondate del popolamento umano, alla fine dell’ultimo periodo glaciale.

Naturalmente sono possibili anche altre ipotesi, ma se così effettivamente fosse, il Drago risulterebbe essere uno degli archetipi più antichi e profondi  della nostra mente.   Addirittura potrebbe essere nato insieme con la capacità di pensiero simbolico.   Vale a dire che potrebbe essere nato con la nostra stessa specie, circa 50.000 anni or sono, e da allora nostro compagno nel bene e nel male.   Un ipotesi estremamente affascinante, soprattutto alla luce dell’evoluzione che questo archetipo ha subito, particolarmente nella cultura occidentale oggi dominante a livello globale.   Da sempre simbolo di forze incontrollabili, il Drago è stato infatti gradualmente demonizzato, fino a diventare simbolo stesso del Diavolo, sconfitto ed ucciso da un eroe oppure da una Vergine, a seconda delle versioni.    Con il trionfo dell’illuminismo e del positivismo, i draghi sono stati accantonati nella polverosa soffitta della mitologia desueta, dove solo archeologi e scrittori stravaganti vanno a frugare, mentre i nuovi miti della Macchina, della Velocità e del Progresso davano forma e senso alla civiltà industriale.    In modo definitivo, si sarebbe detto fino a pochi anni or sono e  forse è davvero così, ma forse no.

Oramai da oltre un decennio, infatti, il Drago sta tornando di prepotenza nell'iconografia e nella cultura popolare attraverso immagini, giochi e narrativa, anche se spesso di mediocrissima lega.   Potrebbe rivelarsi una semplice moda fra le tante, ma se invece si dimostrerà un fenomeno duraturo e radicato, potrebbe essere un indicatore del massimo interesse per antropologi e sociologi.

Oggi, infatti accanto all'immagine classica del Drago nemico e distruttore, se ne trovano altre dove il Drago viene mostrato come una forza incontrollabile, ma non necessariamente ostile.     Anzi è spesso alleato dell’eroe od è esso stesso l’eroe, assurgendo perfino a simbolo di speranza.   Un cambio di significato in un archetipo di tale antichità significherebbe che qualcosa di molto profondo sta cambiando nel nostro inconscio collettivo.

Certo, ipotizzare che ci troviamo all'alba di una cambio radicale nei paradigmi mentali dell’umanità sarebbe a dir poco esagerato.   Ma nulla ci impedisce di pensare che ci potremmo trovare di fronte ad un “germe” della mitologia che darà sostanza e significato alle civiltà che, presumibilmente,  si svilupperanno nei secoli seguenti il collasso della civiltà attuale.   Se, infatti, possiamo trovare poco conforto in scienze come la Fisica, l’Ecologia o la Dinamica dei sistemi,

possiamo trovarne nell'archeologia.
Per costruire una società complessa ed una civiltà sono necessari fondamentalmente quattro soli ingredienti: suolo, acqua, biodiversità  e mitologia.   Coloro che oggi si occupano di resilienza danno molta importanza soprattutto ai primi due, ma anche del terzo alcuni tengono conto.   Del quarto ingrediente per ora non credo che si occupi nessuno o quasi.   Tuttavia, senza che neppure ce ne accorgiamo, è proprio su questo che forse stiamo facendo dei progressi interessanti.




mercoledì 3 giugno 2015

La geopolitica dei gasdotti

Guest post di Tatiana Yugay

Tatiana Yugay insegna economia mondiale, relazioni economiche internazionali, e teoria economica presso l'Università Statale di Mosca, Russia. Si può anche essere interessati a visitare il suo blog "Santatatiana" dove descrive i suoi viaggi per l'Italia Medievale.


Nota: la prof. Yugay terrà un seminario sulla geopolitica dei gasdotti a Firenze Venerdì 5 Giugno al polo di Novoli delle scienze sociali, edificio D6, aula 102, ore 11. Ingresso libero per tutti gli interessati. (La prof. Yugay parlerà in Italiano)


 
Diamo un'occhiata alla mappa dell'Europa e la Russia. Si vedrà che, da un lato, molti paesi europei sono quasi totalmente privi di idrocarburi, e dall'altra — la parte orientale della Russia ha enormi riserve di petrolio e gas.


Picture credit http://www.grida.no

Infatti, il tallone d'Achille dell'UE è la sua dipendenza energetica: oltre la metà del suo fabbisogno è coperto dalle importazioni di idrocarburi. Mentre il ricorso al gas soddisferà fino al 25% del consumo energetico dell'Unione sino al 2050, il costo delle importazioni di combustibili fossili dovrebbe salire a circa 500 miliardi di euro già nel 2030.

La Russia sarà ancora il più grande esportatore al mondo di energia fino al 2035, ha detto BP nella sua relazione annuale Energy Outlook. La produzione di gas naturale in Russia è impostata per essere la seconda più grande al mondo, dopo gli Stati Uniti, arrivando a 75 miliardi di piedi cubi al giorno nel 2035.

Secondo la teoria classica dei vantaggi assoluti di Adam Smith, i paesi esportano i prodotti che producono a costi inferiori (nella produzione di cui hanno un vantaggio assoluto), ed importano quei beni che vengono prodotti in altri paesi a costi inferiori (un vantaggio per la produzione appartiene ai loro partner commerciali). Questa semplice regola è la pietra angolare di tutto il sistema del commercio internazionale. Sembrerebbe che non ci dovrebbe essere posto per la geopolitica; solo gli interessi economici puri.

Tuttavia, il gas non è solo una merce. Ha una serie di caratteristiche speciali che lo rendono una merce politicizzata. Prima di tutto, si tratta di una risorsa rara, anche se questo concetto è molto relativo. In alcune regioni è abbondante, in altri, al contrario, esso è mancante. Inoltre, il progresso della scienza e della tecnologia porta alla scoperta di nuovi campi e nuovi modi per estrarre il gas. Questi esempi sono la produzione di gas nel Mare del Nord e l'estrazione di gas di scisti negli Stati Uniti. Al momento, stiamo assistendo alla situazione opposta, quando non sono rare le risorse minerarie, ma la necessità per loro. Nuovi produttori di gas entrano in forte concorrenza con i fornitori tradizionali. Nel contesto della crisi economica la domanda di gas è ridotta. Per sostenere i loro produttori i governi stanno iniziando a utilizzare gli strumenti politici.

Il gas naturale, tuttavia, è diverso da altre fonti energetiche. Sopratutto è una fonte di energia più pulita degli altri combustibili fossili. Essendo un gas, è un bene che non viaggia molto facilmente ed è costoso da trasportare. Le proprietà fisiche del gas richiedono i metodi speciali della trasportazione. A livello moderno della scienza e della tecnologia, ci sono due modi di trasporto: 1) il gas naturale è fornito dal sistema di condotte e 2) il gas naturale e convenzionale liquefatto (LNG, liquefied natural gas) è trasportato da navi speciali. Il trasporto del LNG richiede la costruzione di impianti speciali di liquefazione e rigassificazione presso i punti di partenza e di destinazione, e una flotta di navi speciali.

La Russia tradizionalmente utilizza per le forniture di gas il sistema di condotte in Europa. L’esportazione di gas russo verso i mercati europei è cominciata alla fine degli anni ’60. Nel 1967 era entrato in funzione il gasdotto «Bratstvo» (Fratellanza), che attraverso l’Ucraina e la Slovacchia trasporta il gas fino in Germania, Austria e Italia. Il «Bratstvo» può trasportare oltre 100 miliardi di metri cubi di gas all’anno e resta tuttora il principale gasdotto per l’esportazione di gas russo verso l’Europa centro-occidentale.

Picture credit http://www.gazprom.com/

Oggi la rete dei gasdotti della compagnia statale russa Gazprom è la più vasta al mondo. Si estende per 160.400 chilometri (quattro volte la circonferenza equatoriale della Terra), dall’isola di Sakhalin nell’Estremo oriente fino alle porte della Germania, ed è in continua espansione. Per pompare il gas lungo la fitta rete di gasdotti, Gazprom mantiene in funzione 215 stazioni di compressione, con una capacità totale di circa 42.000 Megawatt.

A prima vista, per la costruzione di un sistema delle tale complessita e  lunghezza, i principali compiti sono di ingegneria e logistica. Da un punto di vista economico, è necessario calcolare come fornire il più alto volume di gas ai consumatori europei in modo costo-efficace. Purtroppo, la saggezza economica non funziona nel settore del gas. Cinque anni fa Ben Aris ha scritto, “I gasdotti e gli oleodotti sono veri e propri strumenti politici quando sono in fase di pianificazione ma, una volta costruiti, sono l’equivalente geopolitico di un matrimonio”. Lui sperava che la costruzione dei gasdotti rivali potesse rompere “il monopolio russo».

Poiché le condotte collegano i fornitori e i consumatori di gas nel lungo termine, è qui che entrano in gioco gli interessi geopolitici. Per prima cosa, i paesi consumatori sono naturalmente  preoccupati dell'eccessivo affidamento a un monopolio nella fornitura di gas. Pertanto, essi cercano di diversificare le forniture di gas, che è, se si continua l'analogia di Aris, un modo per spostarsi dalla monogamia alla poligamia. Da parte sua, il fornitore di gas impegna enormi capitali per la costruzione del gasdotto e deve essere sicuro che l'elevata domanda di gas rimarrà per lungo tempo per recuperare i suoi costi.

In secondo luogo, un ruolo crescente è svolto dagli stati di transito del gas. Fornendo il loro territorio per la costruzione di infrastrutture per il gas, tali paesi vogliono trarre il massimo vantaggio dalla loro posizione privilegiata, per ottenere un prezzo speciale sul gas e tasse sul transito. Solitamente la contrattazione inizia nella fase di decisione sulla costruzione e spesso continua durante la fase di esercizio della condotta. E a volte vediamo un vero e proprio ricatto da parte del paese di transito e anche l'uso illegale di gas sottratto dal gasdotto.

In terzo luogo, gli interessi dei fornitori e consumatori sono identici solo quando si ha la fornitura di un flusso di gas ininterrotto verso la destinazione. Questo dipende in larga misura dalla situazione politica ed economica nei paesi di transito. Infine, i contratti per la costruzione dei gasdotti internazionali sono spesso sotto pressione politica da parte di paesi che non sono formalmente coinvolti nei progetti, ma hanno gli interessi geopolitici ed economici nella regione. A questo punto la geopolitica dei gasdotti viene fuori alla grande.

Fin dai primi anni '80, i gasdotti dell'URSS erano diventati l'oggetto di una pressione politica senza precedenti da parte degli Stati Uniti. Per esempio, il secondo gasdotto sovietico Urengoy - Pomary - Uzhgorod è stato costruito dall'Unione Sovietica nel 1983 per la fornitura di gas naturale dai giacimenti nel nord della Siberia occidentale ai consumatori in Europa centrale e occidentale. La capacità effettiva è 28 miliardi di metri cubi all'anno. La lunghezza totale del gasdotto è  4451 km. La lunghezza sul territorio dell'Ucraina è di 1160 km. La sua costruzione aveva coinciso con l'avvento al potere di un fanatico anti-comunista Reagan nel 1981. Il nuovo presidente iniziò una crociata economica contro l'Unione Sovietica. In condizioni di estrema segretezza era stato sviluppato un piano integrale per minare il potere economico e militare dell'Unione Sovietica. Alla fine degli anni '90, Roger W. Robinson, Jr. , ex direttore senior per gli affari economici internazionali del Consiglio di sicurezza nazionale (1982-1985), ha aperto il velo di segretezza.

Secondo Robinson, l'azione era iniziata con la formazione del "gruppo interdipartimentale di alto livello per la politica economica internazionale" (Senior Interagency Group on International Economic Policy, SIG IEP). Prima di tutto, il gruppo aveva esaminato le fonti di afflussi in valuta estera dell'URSS. Era stato scoperto che l'Unione Sovietica aveva ricevuto circa l'80% del fatturato estero da quattro fonti: il petrolio, il gas, le armi e l'oro, con gli idrocarburi che avevano generato circa il 66% di questo importo.  Sulla base di questo rapporto, Reagan era deciso a colpire le forniture di petrolio e di gas verso l'Europa. Gli analisti americani contavano sul fatto che che le minori entrate in valuta estera avrebbero limitato la politica interna ed estera dell'Unione Sovietica. Gli Stati Uniti si erano opposti alla costruzione del gasdotto dalla Siberia verso l'Europa occidentale e in collusione con l'Arabia Saudita avevano abbassato i prezzi del petrolio sei volte, fino a 9-10 dollari al barile, verso la fine degli anni 1980. La produzione saudita era passata da ~ 2MBD (milioni di barili / giorno) a 6 mbd in un arco d'un anno del 1985.

Il piano di Reagan includeva l'attuazione della cosiddetta "triade strategica commerciale." In particolare, questo  significava limitare fortemente l'accesso di Mosca a: 1) mercati del gas naturale in Europa occidentale; 2) accordi di prestito ufficialmente agevolati; e 3) tecnologie sofisticate statunitensi e occidentali per uso militare.

Gli Stati Uniti non potevano vietare esplicitamente la costruzione di un gasdotto che doveva passare esclusivamente sul territorio dell'URSS. Essi hanno fatto ricorso a metodi indiretti, mettendo un embargo sulle attrezzature chiave e la tecnologia degli Stati Uniti per petrolio e gas che non erano disponibile altrove e effetuando una forte pressione sui paesi europei. Infatti, l'amministrazione di Reagan aveva imposto sanzioni alle imprese europee che volevano fornire attrezzature e tecnologie, che erano prodotte da licenze statunitensi. Questo significava l'applicazione delle leggi degli Stati Uniti verso l'Europa sul principio di extraterritorialità. Questo principio era stato utilizzato per la prima volta durante il conflitto sul gasdotto siberiano.

Gli Stati Uniti avevano stabilito il controllo dell'importazione per tutte le imprese dell'Europa occidentale, il che significava una rapida crescita delle sanzioni economiche. Questo controllo di importazione, quando identificato per un'azienda. le chiudeva completamente i mercati degli Stati Uniti, compresi i mercati finanziari.

Nonostante questo, cinque aziende provenienti da Germania, Francia, Italia e Regno Unito avevano continuato a rifornire l'Unione Sovietica. Il risultato delle sanzioni adottate dagli Stati Uniti era stato il fallimento delle tre società. Di conseguenza, l'Europa era stata costretta a obbedire ai dettami degli Stati Uniti.

In  aggiunta, nel maggio del 1983, prima dell'incontro al vertice economico a Williamsburg, l'Agenzia Internazionale per l'Energia ha firmato un accordo sulla questione del gas. Il documento dichiarava l'intenzione dell'Europa di evitare la dipendenza da un unico fornitore, con un chiaro riferimento all'Unione Sovietica. Il documento annunciava anche la necessita del'accelerazione dello sviluppo del giacimento Troll in Norvegia. In tal modo, gli Stati Uniti  avevano chiesto all'Europa di pagere un "premio per la sicurezza", nel senso di prezzo del gas norvegese aumentato e degli investimenti per velocizzare la costruzione degli impianti per LNG.

Come risultato, gli Stati Uniti erano riusciti a rimandare la messa in servizio della prima linea del gasdotto trans-siberiano  per due anni e mezzo, e cancellare la seconda linea del gasdotto. Il costo per Mosca della perdita della seconda parte del gasdotto siberiano sarebbe stato di circa $ 10-15 miliardi di dollari all'anno, senza contare i costi di un ritardo di due anni per portare la prima parte on-line.

La strategia dell'amministrazione Reagan, progettata per 5 - 10 anni, era iniziata nel 1982. E il 23 dicembre del 1991, due giorni prima dal'annuncio della dissoluzione dell'Unione Sovietica, Gorbaciov ha annunciato un default su 96 miliardi di dollari di debiti in valuta estera.

Questo vecchio episodio della guerra fredda può servire come un libro scolastico per capire l'attuale fase di confronto tra la Russia e l'Occidente. Veronica Krasheninnikova, direttrice del Centro per gli studi internazionali e giornalismo MIA "Russia Today", dice: “Trenta anni dopo l'inizio dello sviluppo della strategia di Reagan per soffocare l'Unione Sovietica, nel 2012, Barack Obama sembra aver messo a punto un piano simile - questa volta contro la Russia”.
(continua)

martedì 2 giugno 2015

Dal nostro uomo a Roma: un rapporto sull "International Symposium on climate change"



Foto dei relatori del convegno International Symposium on climate change. Al centro, con la cravatta Rossa, Martin Lees, ex segretario generale del Club di Roma. Sulla destra nella foto, Ian Dunlop (con la cravatta gialla) e Jeremy Leggett (senza cravatta)

Si è svolto in questi giorni un convegno sul cambiamento climatico a Roma. Per molti versi, una cosa curiosa: un convegno sul clima senza nemmeno un climatologo? (o, perlomeno, dalla lista degli oratori, non sembra che ce ne fossero) Ma, d'altra parte, può darsi che abbiano ragionato che ormai il cambiamento climatico è cosa assodata e quindi c'è bisogno di concentrarsi sulle soluzioni, piuttosto che sul problema.

In effetti, fra i relatori e gli organizzatori c'erano persone estremamente valide e che conosco personalmente, come Ian Dunlop, Martin Lees e Jeremy Leggett. Altri relatori avevano delle ottime credenziali. Per alcuni, invece, forse non era proprio così, ma non entriamo in questo argomento.

Il nostro uomo a Roma, Alessandro Pulvirenti, commentatore molto attivo dei post su "Effetto Risorse," ci fa un breve resoconto del convegno, al quale ha assistito per tutti i tre giorni. Per dettagli, potete domandare a lui nei commenti.

Un rapporto sull "International Symposium on climate change"

Di Alessandro Pulvirenti

Quando si è svolta, chi c’era e il programma
La conferenza internazionale sui cambiamenti climatici è durata 3 giorni, dal 27 al 29 maggio 2015; si è svolta a Roma nel Tempio di Adriano.
Il sito dedicato all’evento è il seguente:
Potete trovare i dettagli sui partecipanti e sul programma, qui:
Gli interventi in programma sono cambiati durante l’evento, in quanto, ha suscitato grande interesse e alcuni politici di passaggio, hanno chiesto o gli hanno offerto d’intervenire all’evento.
 
Scopo della conferenza
Tutte le conferenze che ci sono state sul clima, non hanno impegnato i Paesi del mondo a un intervento serio contro i cambiamenti climatici. La conferenza internazionale COP21 che ci sarà in Dicembre 2015 a Parigi, ci sono buone probabilità che si riveli l’ennesimo fallimento.
Lo scopo di questa conferenza di Roma, era quello di preparare un documento condiviso che potesse essere già una base di partenza per la conferenza di Parigi, in modo da aumentare le possibilità che, questa volta si ottenessero dei risultati.
Metà della conferenza si è svolta a porte chiuse tra gli esperti per preparare il documento su cui gli esperti sarebbero stati d’accordo.
Oltre questo, la conferenza di Roma spera di incentivare la creazione di un’organizzazione internazionale che sia il punto di riferimento per i cambiamenti climatici. Un organismo stabile che si occupi costantemente di tali problemi.
Svolgimento della conferenza
La conferenza è iniziata con la lettura del messaggio dell’ex segretario generale del partito comunista dell'Unione Sovietica: Mikhail Gorbachev, il quale non è stato presente per motivi di salute. Tale messaggio evidenziava come i cambiamenti climatici siano un grande problema d’affrontare prima possibile e di come il dialogo, tra Russia e USA, debba ricominciare per preservare la Pace nel mondo e l’ordine mondiale.
Gli interventi non sono stati tutti tecnici, anzi, hanno cercato di vedere la problematica dei cambiamenti climatici da tutti i punti di vista, facendo intervenire anche presidenti d’importanti società petrolifere, di rinnovabili, politici, musicisti e pittori. Anche l’arte ha avuto la sua parte in tale conferenza.
I principi base su cui, la maggior parte degli intervenuti concordava erano i seguenti:
  • L’urgenza nell’intervenire; in quanto, si avverte il rischio di non avere più il tempo a disposizione per ottenere dei risultati significativi;
  • Che la colpa dei cambiamenti climatici sia dovuta principalmente alla CO2 presente nell’aria e ad eventuali altri gas, espressi con concentrazioni di CO2 equivalenti;
  • Che le rinnovabili possono ridurre le emissioni di CO2;
  • Che l’Europa ha ridotto le emissioni di CO2 e si aspetta che lo facciano anche gli altri (la Cina specialmente);
  • Che l’Italia ha superato gli obbiettivi del 20% di energia elettrica fornita dalle rinnovabili, anche se, ha fatto meno dal punto di vista dell’efficienza;
  • Si è parlato di come il prezzo dei pannelli fotovoltaici si sia ridotto notevolmente nel corso degli anni;
  • Sono stati riportati i dati satellitari di come le calotte artiche siano cambiate nel corso del tempo;


Comunicato finale
Il comunicato finale sarà presentato nei prossimi giorni.
Ne verranno redatte due o tre versioni, a seconda del destinatario (pubblico, tecnici o conferenza di Parigi).
Nelle intenzioni di tutti, c’era la voglia di fare qualcosa d’incisivo e rapido che potesse dare una svolta e una speranza che si possa intervenire con decisione, per bloccare o limitare i cambiamenti climatici.
E’ stato evidenziato come c’è bisogno di un maggiore impegno economico da parte dei Paesi, sia nella ricerca e sviluppo che come incentivi. Anche la popolazione deve fare la propria parte, evitando gli sprechi e cercando di permettere il riciclo dei rifiuti.
Chiaramente sono problemi molto complessi, in quanto, molte della variabili influenti sono interdipendenti e quindi, ogni azione comporta aspetti positivi, ma anche negativi. Le difficoltà che ci sono nel trovare un accordo internazionale risiedono proprio in questo: alcuni Paesi considerano tali misure, come un onere eccessivo che potrebbe penalizzare la loro competitività a livello internazionale.
Tutti sono d’accordo che bisogna rispettare l’ambiente e che si debba fare qualcosa al più presto, le difficoltà risiedono nelle scelte da attuare e su chi deve ricadere il maggiore onere di tali scelte.
Dopo la conferenza di Parigi (COP21) che ci sarà a dicembre di quest’anno, verrà indetta un’altra conferenza come questa di Roma, da effettuarsi intorno a Marzo 2016, che servirà ad analizzare le misure intraprese nella conferenza di Parigi.

lunedì 1 giugno 2015

Internet: il grande imbroglio del rinnovo automatico (e un trucco per liberarsene)




L'altro giorno, mi arriva il messaggio che vedete qui sopra dove mi dicono che rinnoveranno automaticamente il mio abbonamento al loro software, ovviamente facendo un prelievo sulla mia carta di credito. Su questa vicenda ci ho perso una buona mattinata di arrabbiature, per cui ho pensato di raccontare tutta la storia sul blog - forse potrà essere utile a qualcuno che si viene a trovare nella stessa situazione.

Per cominciare, mi ricordo che questo software, "Stopzilla" l'avevo effettivamente comprato due anni fa per vedere di eliminare un virus assassino che mi aveva acchiappato un laptop. E mi sembra di ricordarmi che aveva anche funzionato. Ma sono anche strasicuro che NON avevo firmato nessun contratto di rinnovo automatico. Non lo faccio mai, non sono mica fesso. Eppure non basta: o c'era qualche trucco per cui mi hanno fatto cliccare su qualcosa di nascosto, oppure se lo sono inventato. Insomma, questi mi scrivono che si sentono in diritto di farmi un prelievo sulla mia carta di credito a meno che non gli dica esplicitamente di non farlo. (e meno male che questo messaggio non è finito nello spam!)

E' chiaramente un imbroglio, ma come fermarli? E' venuto fuori che non è per niente facile fermare questo tipo di truffa. 

Notate per prima cosa che nel messaggio non ti danno nessun altro modo di contattarli se non un numero di telefono negli Stati Uniti. Certo, ho l'indirizzo dal quale mi è arrivato il messaggio (is3@avangate.com), ma è ovvio che scrivergli quell'indirizzo è equivalente a scrivere a Babbo Natale; non ti puoi aspettare che ti rispondano o che ti diano retta.

Così, non mi resta che provare a telefonare. Vi dirò che ci ho provato per ben tre volte. La prima volta, mi hanno riattaccato in faccia. La seconda mi hanno chiesto il mio numero di telefono e mi hanno detto che mi richiamavano (ovviamente non l'hanno fatto). La terza, mi hanno detto "adesso siamo chiusi - richiami più tardi". La tipa che rispondeva al telefono (sempre la stessa), evidentemente, aveva studiato le tecniche della guerriglia urbana applicate al telemarketing. Insomma, niente da fare e se insistevo spendevo chissà quanto di telefono per non arrivare a nulla.

Ho provato allora a telefonare al servizio clienti della mia carta di credito. Qui, uno si aspetterebbe di avere un certo controllo su cosa paghi e a chi. E invece no. Il tizio del servizio clienti mi dice, "Se hai fatto una sottoscrizione con rinnovo automatico, loro hanno diritto di fare il prelievo" Io gli rispondo, "ma non è vero, è un imbroglio. Non ho fatto nessuna sottoscrizione del genere". Risposta (più o meno): "l'hai fatta se loro dicono che l'hai fatta." Insisto: "Ma come posso cancellarla?" "Devi dire a loro che la vuoi cancellare. Solo dopo, se ti fanno il prelievo, puoi contestare il pagamento."

Comincio a sentirmi leggermente alterato. Dico al tipo, "ma questi non mi hanno dato altro che un numero di telefono in America per contattarli. E quando gli telefono non mi danno retta." Quello mi risponde, più o meno, "non è un problema nostro."  Dico, "E se per caso non sapessi parlare in inglese?" Risposta: "è un problema tuo".

Rabbia montante: provo a vedere se ritrovo l'originale dell'ordine che avevo fatto. Ma nessuna traccia di quel nome e di quell'indirizzo e-mail. Eppure ho tutti i messaggi mandati e ricevuti da almeno cinque anni. Ma questo "avangate" non esiste nei miei record. Devono aver cambiato nome o chissà cosa hanno inventato. Un trucco anche questo, in ogni caso.

A questo punto, sto veramente fumando. Considero l'ipotesi di dichiarare lo smarrimento della mia carta di credito, così perlomeno li blocco per davvero. Ma è una cosa complicata e poi magari va a finire che mi ridanno lo stesso numero per la nuova carta. E non mi ricordo nemmeno se per caso avevo invece pagato con paypal. Ma porca miseria.....

Finalmente, mi viene un'ideuzza: guardare il "source" del messaggio che mi è arrivato, chissà che non ci fosse un'email valida? E lì succede il miracolo: eccolo qua:


Vedete? Invisibile se guardato in modo normale, c'era nel source un testo nascosto con i dati su come fare a cancellare l'opzione di "auto-renewal." Come abbiano fatto a fare in modo che non apparisse sul mio client di posta, non ho idea, ma sicuramente c'è qualche trucco per farlo. In ogni caso, è probabile che per legge fossero obbligati a mandare queste informazioni, ma in questo modo uno le riceve, ma non le può vedere.

Anche dopo aver scoperto il messaggio segreto non è stato facile cancellare l'ordine. Il loro sito sembra fatto apposta per non farti trovare la pagina giusta, quasi peggio del sito dell'INPS. Ma, con un bel po' di lavoro e tanti accidenti, alla fine sono riuscito a trovare la pagina giusta. Ho scoperto che stavano per farmi pagare 49,90 dollari e ho cliccato via la spuntatura sul "rinnovo automatico. Sembrerebbe sia andata bene e, in effetti, mi è persino arrivata una notifica di cancellazione (dopo aver cercato di imbrogliarmi in tutti i modi, ora fanno i bravi.....)

Certo però, di tutta questa vicenda ne viene fuori che effettivamente comprare qualcosa su internet può essere rischioso. Il trucco di questi qui è di portarti via piccole cifre, sperando che uno non se ne accorga; oppure che si scoraggi di fronte alla difficoltà di cancellare, che rimandi alla prossima volta e poi se ne dimentichi. Stavolta, ho trovato un trucchetto per fregarli, ma chissà quanti altri imbrogli ti possono inventare.

La cosa strana, però, è che tu non puoi dire alla tua compagnia di carta di credito che vuoi interrompere un servizio di pagamento automatico. Questa è veramente un'assurdità, considerando il gran numero di questi imbrogli che girano su internet; ci provano tutti e ci provano sempre. A me è capitato che un noto provider italiano abbia continuato ad farmi pagare per un sito che non esisteva più per almeno tre anni, senza dirmi niente.

Possibile che non si possa fare qualcosa per fermarli senza costringere un poveraccio a dover hackerare la propria posta elettronica?