mercoledì 4 giugno 2014

Europa: dove troveremo il gas che ci serve?

DaThe Oil Crash”.  27 Maggio 2014
Traduzione di MR

Da notare, fra le altre cose, come in questo post Antonio Turiel nota come anche il governo spagnolo stia utilizzando trucchi statistici per far credere che il PIL sia in aumento o che cresca più rapidamente, come ho discusso in un mio post  per quanto riguarda l'Italia (U.B.)


Di Antonio Turiel

Cari lettori,

l'Unione Europea  si trova ad un crocevia storico. Alle recenti elezioni del Parlamento Europeo, la maggioranza dei partiti al Governo o con possibilità di esserci hanno subito una considerevole battuta d'arresto da parte degli elettori, mentre opzioni più radicali si stanno facendo strada. La sbandierata ripresa economica sta lì a dimostrare che non si trattava di altro che di un miraggio e specialmente in Spagna, dove un'opportuna adulterazione delle statistiche ha permesso di far credere che il PIL stesse recuperando con vigore mentre in realtà il consumo interno crolla, la produzione industriale non sta risalendo e il bilancio commerciale peggiora mese dopo mese (le esportazioni non sono più il tanto applaudito “motore economico della Spagna”, visto che chiaramente dagli inizi dell'anno le importazioni le superano in valore economico). Ma molto oltre le frontiere dell'Europa alcuni racconti eventi recenti strangoleranno ancora di più la capacità economica del Vecchio Continente nei prossimi anni e decenni con conseguenze politiche e sociali che non si ha ancora il coraggio di discutere.

La prima di queste notizie è il recente annuncio della firma di un accordo storico fra la compagnia russa Gazprom (protetta dal governo russo) e la compagnia cinese CNCP (controllata dal governo di quel paese) secondo il quale la Gazprom si impegna a fornire 38 miliardi di metri cubi (in unità americane sarebbero 1,3 trilioni di piedi cubici) di gas naturale all'anno a CNPC a partire dal 2018 per 30 anni. L'Unione Europea ha importato nel 2012 ha importato 14 trilioni di piedi cubici di gas naturale, dei quali circa un terzo (34%) provenienti dalla Russia, cioè 4,76 trilioni di piedi cubici, per cui l'accordo russo-cinese rappresenta circa il 27% della fornitura annuale di gas russo all'Europa. E' chiaro che per l'Unione Europea è emerso un concorrente importante per il gas naturale russo. Per mettere le cose in una migliore prospettiva, guardate il seguente grafico di produzione di gas naturale russo, preso come sempre dal sito web Flussi di Energia ed elaborato con dati dell'annuario del 2012 della BP:


La Russia ha prodotto meno di 60 miliardi di piedi cubici di gas naturale al giorno, cioé, circa 21 trilioni di piedi cubici di gas naturale all'anno. La fornitura annuale corrente all'Unione Europea e quella prevista alla Cina rappresentano rispettivamente il 22% e il 6% della produzione annuale di gas della Russia, il che rende chiara l'importanza di queste transazioni e della mutua dipendenza economica fra Russia ed Unione Europea, nella quale la prima si trova in condizioni migliori per diminuire che non la seconda, soprattutto ora che il problema in Ucraina le ha allontanate. Ciò che preoccupa veramente nell'accordo fra russi e cinesi è la sua lunga durata, soprattutto se si tiene conto del fatto che la Russia sembra prossima a raggiungere il proprio picco interno del gas. Non è facile trovare previsioni sulla futura produzione di gas in Russia; l'unica stima più o meno affidabile che ho trovato è quella del rapporto dettagliato del 2013 dell'Energy Watch Group; da lì ho estratto questo grafico con la previsione di produzione di gas naturale in Russia.


Come si vede, il fatto di mantenere un plateau produttivo per i prossimi 15 anni dipende dal fatto che si sviluppino una serie di giacimenti già identificati (Kruzenshten, Shtokmanskoye, Tambey, Yamal e Mare di Barents); oltre non c'è nulla, per il momento, e sarà difficile che ci sarà qualcos'altro, tenendo conto che la Russia ha già cominciato a mettere in moto i suoi giacimenti in Siberia, i più lontani, da quasi 10 anni. I tassi annuali di declino della produzione di gas naturale dei diversi giacimenti, come si vede, sono molto alti, con una diminuzione tipica del 50% in soli 10 anni. Inoltre, come mostra la caduta del 2009 (un anno dopo il picco del prezzo del petrolio), la produzione è molto sensibile all'investimento ed ai prezzi molto alti. Quindi non sarebbe strano che intorno al 2035, con l'accordo russo-cinese ancora a metà della propria vita, la produzione di gas russo fosse la metà di adesso e verso la fine della sua scadenza giungesse ad essere solo un quarto della produzione attuale. Anche contando su una stagnazione del consumo europeo in questi tre decenni, in quel momento la Russia dovrebbe decidere se esportare tutto il suo gas alla UE o piuttosto fornirlo in quantità parzialmente ridotte e fornire il proprio vicino del sud. Con una recessione in corso e senza poter competere col gigante asiatico, è più che probabile che l'Europa abbia tutte le possibilità di perdere in questa situazione.

Potrebbe sembrare che i problemi che avrà l'Europa con la fornitura di gas si potrebbero risolvere affidandosi di più ad altri fornitori anche vicini geograficamente, in questo caso i paesi del Golfo Persico, che sono ricchi di gas e petrolio (in Spagna si alimenta l'errore della fornitura inesauribile dall'Algeria, mentre questo paese ha già chiaramente superato il proprio picco interno di gas e petrolio). A chi pensa questo risulterà pertanto sconcertante una notizia apparsa la scorsa settimana, secondo la quale nel Golfo Persico comincia a scarseggiare il gas. Il fatto è che il gas naturale, che è stato disprezzato per anni in una zona con tanta abbondanza di petrolio, ora comincia ed essere molto ricercato perché risulta più redditizio per la produzione di elettricità e, sebbene se la notizia non lo dica, per lasciare più petrolio disponibile per l'esportazione, ora che la produzione di petrolio dell'OPEC è giunta ad un plateau dal qual non si salirà di nuovo. Ma risulta che per produrre gas naturale si deve fare un investimento in infrastrutture di stoccaggio e trasporto molto elevato, la qual cosa non è sempre facile da ammortizzare tenendo conto dei bassi prezzi del gas in confronto a quelli del petrolio (in parte perché il gas è meno versatile, più difficile da maneggiare e stoccare, più pericoloso, ecc.). In aggiunta, come riporta l'articolo, le grandi riserve di gas del Golfo Persico risultano avere un maggior contenuto di zolfo e pertanto esigono un trattamento maggiore per poter essere utilizzato. Tutto ciò si può riassumere in un modo semplice: questo gas ha un EROEI inferiore a quanto atteso, il che si traduce nel fatto che le presunte grandiose riserve di gas naturale della zona non sono, in senso netto, tanto grandiose come si presumeva (una cosa che agli economisti fa orrore comprendere). La conseguenza finale e reale di questa situazione è che il Golfo Persico, anziché essere un produttore netto di gas naturale, si sta dirigendo con passo deciso ad essere un importatore netto, per cui anziché alleviare i problemi dell'Europa, ne incrementa l'insicurezza.

E se l'Europa volesse guardare oltre Atlantico, le cose non vannomolto meglio. Non darò qui i dettagli delle ragioni per le quali è completamente assurdo pensare che gli Stati Uniti potranno esportare un giorno gas naturale in Europa; lo ha già fatto Gail Tverberg per me. Ma il fatto è che innanzitutto gli Stati Uniti avranno bisogno di aumentare le loro esportazioni di gas naturale nei prossimi anni, lasciando da parte il naufragio della bolla del fracking in atto, risulta che la EIA (che dipende dal Dipartimento per l'Energia degli Stati Uniti) stia falsificando i dati di produzione di gas naturale negli Stati Uniti, come viene spiegato in questo articolo, riassunto in questo grafico:


La fascia rossa rappresenta tutta la sovrastima di produzione di gas naturale. La cosa ironica è che la curva gialla si ottiene con i dati di produzione di ogni compagnia individualmente... che la stessa EIA rende pubblici! Come vedete, la EIA sta contribuendo a creare una falsa apparenza di abbondanza, ma l'inganno non si potrà mantenere per troppo tempo. Così non solo gli Stati Uniti non forniranno altro gas all'Europa, ma diventeranno degli ulteriori concorrenti per la preziosa risorsa.

Il gas naturale, eterna promessa di combustibile con minori emissioni di CO2, non è la soluzione a nessun problema, perché la sua disponibilità si trova già seriamente compromessa e lo sarà sempre di più negli anni a venire; non possiamo eludere il picco del gas, così come non possiamo eludere il picco del petrolio. Una politica energetica nazionale sensata dovrebbe tener conto di questo fattore, così come del tramonto del petrolio e del vicino picco dell'uranio, per preparare un vero piano di contingenza di fronte ad una transizione (non solo energetica, ma sistemica) che non può più attendere.

Saluti.
AMT

P. S.: La quarta notizia rilevante della settimana non ha a che fare col gas, ma col cosiddetto shale oil (il petrolio leggero che si estrae da rocce porose usando la tecnica del fracking). Risulta che recentemente il servizio geologico minerario degli Stati Uniti ha ribassato la sua stima delle riserve nella formazione di Monterey, California... di nientemeno che il 96%! Avete letto bene: le riserve inizialmente stimate in 15,5 miliardi di barili ora si dice che siano solo 600 milioni di barili. La cosa grave è che si stimava che la formazione di Monterey rappresentasse il 63% dello shale oil degli Stati Uniti, per cui le riserve nordamericane di shale oil oggi sono di un 60% inferiori a quello che erano la scorsa settimana... e questo finché non rivalutino il resto dei giacimenti. Il sogno ridicolo dell'indipendenza energetica degli Stati Uniti a tratti svanisce.

martedì 3 giugno 2014

La perdita di carbonio dal suolo accelera il cambiamento climatico

Da “Science Daily”. Traduzione di MR

Università del Nord dell'Arizona, 24 aprile 2014

Una nuova ricerca ha scoperto che l'aumento dei livelli di biossido di carbonio nell'atmosfera spinge i microbi del suolo a produrre più biossido di carbonio, accelerando il cambiamento climatico. Questa ricerca sfida la nostra comprensione precedente su come si accumula il carbonio nel suolo.

 Una ricerca pubblicata su Science  ha scoperto che l'aumento dei livelli di biossido di carbonio nell'atmosfera spinge i microbi del suolo a produrre più biossido di carbonio, accelerando il cambiamento climatico. 

Due ricercatori dell'Università del Nord dell'Arizona hanno condotto uno studio che sfida le conoscenze precedenti su come si accumula il carbonio nel suolo. L'aumento del livelli di CO2 accelera la crescita delle piante, che a sua volta provoca più assorbimento di CO2 attraverso la fotosintesi. Fino ad ora, l'opinione accettata era che il carbonio viene immagazzinato nel legno e nel suolo per lungo tempo, rallentando il cambiamento climatico. Tuttavia, questa nuova ricerca suggerisce che il carbonio supplementare fornisce combustibile ai microorganismi nel suolo i cui sottoprodotti (come il CO2) vengono rilasciati nell'atmosfera, contribuendo al cambiamento climatico.

“Le nostre scoperte significano che la natura non è così efficiente nel rallentare il riscaldamento globale come pensavamo in precedenza”, ha detto Kees Jan van Groenigen, ricercatore al Centro per la Scienza dell'Ecosistema e della Società alla NAU (Northern Arizona University) e autore principale dello studio. “Trascurando questo effetto dell'aumento del CO2 sui microbi del suolo, i modelli usati dal IPCC potrebbero aver sovrastimato il potenziale del suolo di immagazzinare carbonio e mitigare l'effetto serra”. Per capire meglio come rispondono i microbi del suolo alla mutevolezza dell'atmosfera, gli autori dello studio hanno utilizzato tecniche statistiche che confrontano i dati ai modelli e testano gli schemi generali fra gli studi. Hanno analizzato i risultati pubblicati di 53 diversi esperimenti nelle foreste, praterie e campi agricoli in tutto il mondo. Questi esperimenti hanno tutti misurato come il CO2 in eccesso nell'atmosfera condizione la crescita delle piante, la produzione microbica di biossido di carbonio e la quantità totale di carbonio del suolo alla fine dell'esperimento.

“Abbiamo creduto a lungo che i suoli fossero un posto stabile e sicuro per immagazzinare carbonio, ma i nostri risultati mostrano che il carbonio del suolo non è così stabile che pensavamo”, ha detto Bruce Hungate, direttore del Centro per la Scienza dell'Ecosistema e della Società alla NAU e autore dello studio. “Non dovremmo compiacerci dei continui aiuti da parte della natura nel rallentamento del cambiamento climatico”.

Fonte della storia:
La storia sopra è basata su materiali forniti dall'Università dell'Arizona del Nord. Nota: i materiali potrebbero essere modificati in contenuto e lunghezza.  

Rivista di riferimento:
1. Kees Jan van Groenigen, Xuan Qi, Craig W. Osenberg, Yiqi Luo, e Bruce A. Hungate. Faster Decomposition Under Increased Atmospheric CO2 Limits Soil Carbon Storage. Science, 2014 DOI: 10.1126/science.1249534 

lunedì 2 giugno 2014

Ma siamo sicuri che lo sviluppo industriale porti benessere?


 



Di Jacopo Simonetta

Che lo sviluppo industriale porti benessere è uno degli assunti basilari del nostro modo di pensare e di operare.   Come potrebbe essere altrimenti?   Non è forse vero che lo sviluppo industriale ha tirato fuori dalla miseria le masse europee?   Ed allora perché non dovrebbe fare altrettanto negli altri paesi?
Una risposta istintiva potrebbe essere: perché lo abbiamo già fatto noi, ma sarebbe una risposta molto parziale ed in parte sbagliata.   Prendiamo quindi le cose dall’inizio.

Un fatto che nessun economista nega, ma che la grande maggioranza di loro ignora bellamente, è che i processi industriali sono processi fisici e qualunque processo fisico di dimensione compresa fra l’atomo e la galassia è soggetto alla leggi della termodinamica.   Molto sopra e molto sotto queste misure forse no, ma qui non ci interessa.

In sostanza, per realizzare qualunque oggetto si parte da risorse (viventi o meno) e vi si applica dell’energia di alta qualità (generalmente carburanti) per estrarla e concentrarla, poi vi si applica nuovamente dell’energia (spesso elettricità) per trasformare i materiali dandogli una forma precisa ed ordinata.   Poi si applica nuovamente energia per assemblare i pezzi in prodotti finali che dopo un periodo più o meno lungo di uso diventano rifiuti.

Nelle filiere reali i passaggi possono essere numerosissimi, ma in ogni caso, al ogni passaggio si applica un’energia (E) per dividere una parte del materiale che diventa qualcosa di più concentrato e formato (X).   Contemporaneamente, un’altra parte di materiale (spesso maggiore)  diventa invece qualcosa di più disperso e disordinato (Y).   Parte dell’energia applicata viene incorporata nel prodotto X e nel rifiuto Y; parte viene invece dispersa sotto forma di calore, rumore, ecc. (Z).    Quindi abbiamo due cose in entrata (energia e materie prime) e tre cose in uscita: un prodotto X con un’entropia inferiore al materiale di partenza; un rifiuto Y ed un’energia Z che, viceversa, hanno entrambi un’entropia superiore sia al materiale di partenza che all’energia applicata.  





LA COSA FONDAMENTALE DA RICORDARE SEMPRE E’ QUESTA:

L’entropia di Y+Z è sempre maggiore dell’entropia di E+X

Dunque qualunque processo produttivo in realtà non produce proprio niente.   Al contrario, dissipa energia e genera rifiuti per trasformare una piccola parte della materia in oggetti d’uso da cui spesso dipende la nostra vita.  

Una parte dei rifiuti possono essere riciclati, ma in ogni caso il loro riutilizzo è parziale e richiede la dissipazione di ulteriore energia, sia pure in misura minore all’estrazione di risorse primarie.    Il riuso ed il riciclaggio, dunque rallentano l’accumulo di alta entropia, ma non possono fermarlo; men che meno invertirlo.
In sintesi, la produzione industriale raccoglie bassa entropia dove è disponibile al minor prezzo e la concentra in determinate parti del sistema (impianti industriali, depositi, prodotti, infrastrutture, prodotti, ecc), mentre scarica l’alta entropia che produce (rifiuti e calore) su tutto il resto e questo è qualcosa di altrettanto inevitabile della legge di gravità.   

Una faccenda apparentemente banale, ma da cui dipendono i destini dei popoli e dell’intero pianeta.

In ultima analisi, l’industria è infatti un gioco a somma negativa in cui chi ha le manifatture vince e chi ha le cave e le discariche perde; e perde più di quanto gli altri vincano, cosicché il pianeta nel suo complesso perde sempre e comunque.
Ma se non possiamo evitare di danneggiare qualcuno, entro certi limiti possiamo almeno scegliere chi.   Ad esempio, la ripartizione dei vantaggi e degli svantaggi può essere fatta nello spazio (regioni che si arricchiscono a scapito di altre), nel tessuto sociale (classi che migliorano il loro status ed altre che lo peggiorano) oppure nel tempo (generazioni vincenti a scapito dei loro discendenti).   Oppure si possono ideare strategie miste fra queste;  l’unica cosa che non possiamo fare è evitare che qualcuno paghi per chi guadagna.

Visto in quest’ottica , il suicidio commesso da EU ed USA con la delocalizzazione delle manifatture e l’esportazione delle tecnologie è particolarmente strabiliante, ma c’è un aspetto ancora più importante.
Ciò che distingue la Terra da tutti gli altri pianeti conosciuti è che ha un livello di entropia inferiore e questo è dovuto esclusivamente alla presenza della Biosfera.   E’ infatti la presenza di strutture viventi estremamente organizzate e complesse che assicura che la Terra mantenga caratteristiche compatibili con la vita.   La Biosfera è il’unica cosa esistente che è in grado di “pompare” l’entropia al contrario (naturalmente a costo di scaricarla nello spazio circostante, ma non risulta che la galassia ne risenta).

In estrema sintesi, le piante concentrano l’energia e gli animali la disperdono, ma per miliardi di anni c’è stato un lieve saldo attivo che si è tradotto nell’accumulo di entropia in forma di biomassa e, soprattutto, di carbone, petrolio e gas.   Questi giacimenti che chiamiamo “combustibili” erano in effetti quella cosa che la Biosfera aveva sepolto realizzando le  condizioni ambientali in cui la nostra specie e quasi tutte quelle oggi viventi si sono evolute.   Un autentico “vaso di Pandora” che abbiamo scoperchiato e vuotato quasi per metà.

Già lo sterminio della mega-fauna (a partire dal tardo paleolitico) e la conversione degli ecosistemi naturali in ecosistemi agricoli (a partire dal neolitico) e hanno cambiato considerevolmente il mondo, ma senza giungere a modificare sensibilmente l’equilibrio entropico planetario.   Neppure lo sviluppo industriale ha avuto impatti globali avvertibili finché è rimasto un fenomeno localizzato all’Europa occidentale, ma via via che si è diffuso e potenziato ha finito con l’alterare radicalmente gli equilibri termodinamici dell’intero pianeta.

Si può molto discutere se e quanto l’industria danneggi questo o quel popolo, classe o generazione umana, ma nessuno può negare che in fondo alla catena c’è sempre e comunque un perdente: la Biosfera (di cui siamo comunque parte integrante).

Il risultato è che da circa 2 secoli l’entropia planetaria ha cominciato a crescere e lo ha fatto in modo sempre più rapido.   L’effetto finale del “global warming” è proprio questo: ostacolando lo scarico di alta entropia nello spazio, la fa aumentare sulla Terra ed è questa una notizia che dovrebbe gettare nel panico ogni singolo abitante di questo pianeta perché significa che la nostra unica casa sta bruciando e che continuerà a farlo ancora molto a lungo.   Possiamo sperare che il processo sia reversibile nel giro di qualche milione di anni, ma non ci possiamo assolutamente contare.   

E dunque?   Ridurre la produzione industriale parrebbe l’unica cosa lungimirante da fare, ma non possiamo nasconderci che ciò avrebbe effetti devastanti sulle economie, generando numeri incalcolabili di disoccupati e di affamati, con conseguenze sociali facili da prevedere.   Per non parlare del fatto che chi si deindustrializza si pone  alla mercé dei paesi industriali circostanti; una lezione che stiamo forse imparando.

Mantenere la produzione industriale riducendo i flussi di materia ed energia parrebbe una strategia molto promettente, ma in pratica non ha mai funzionato: il miglioramento tecnologico fa aumentare i consumi e, generalmente, anche la popolazione.

Dunque, a scala nazionale e regionale avremmo interesse a sviluppare una nuova fase industriale (il più possibile basata sul riciclaggio e sulle energie rinnovabili), mentre a livello globale è di vitale importanza ridurre drasticamente e molto rapidamente la produzione industriale.   Un bel dilemma!

Ci troviamo ad un bivio: da una parte c’è l’estinzione, dall'altra la disperazione; speriamo di fare la scelta giusta” Woody Allen

Non per caso la divinità di "ultima istanza" rimasta nel vaso di Pandora è proprio la Speranza.


domenica 1 giugno 2014

Maledetti allarmisti!

DaClimateChangeNationalForum”. Traduzione di MR

Di Kerry Emanuel 

L'Associazione Americana per il Progresso della Scienza (American Association for the Advancement of Science – AAA) ha appena pubblicato una dichiarazione sul rischio climatico della quale sono co-autore. Questa dichiarazione ha diversi scopi, uno dei quali è di evidenziare l'importanza del rischio sociale nell'estremo basso della probabilità di distribuzione del cambiamento climatico. Vorrei sfruttare questa occasione per spiegare perché pensiamo che sia necessario parlare di "rischio di coda" e i blocchi che gli scienziati affrontano nel farlo.

Il rischio di coda è un concetto col quale tutti hanno familiarità in qualche modo. Per fare un esempio piuttosto ovvio, supponiamo che una bambina di 8 anni si trovi su una strada affollata che deve attraversare per prendere il suo scuolabus. Insicura sul da farsi, chiede ad un adulto che si trova lì un consiglio. L'adulto risponde che, molto probabilmente, riuscirà ad attraversare la strada indenne.


Immagine di Will Mego via Flickr (link).

Qualsiasi altro adulto ragionevole che ascoltasse un tale consiglio lo considererebbe radicalmente incompleto. Di sicuro, nessuno incoraggerebbe la bambina ad attraversare la strada se ci fosse anche solo l'1% di possibilità che possa essere investita. La conseguenza più probabile è, in questo esempio, ampiamente irrilevante. Ma in questo caso è un inconveniente molto piccolo accompagnare la bambina fino ad un semaforo.

Nel valutare il rischio, bisogna stimare la distribuzione di probabilità dell'evento (l'auto che si scontra con la bambina), avvolgetela con una funzione di risultato (la bambina probabilmente muore se investita) e tenete conto del costo di mitigazione (5 minuti per camminare fino ad un semaforo). Nel regno del cambiamento climatico, gli scienziati del clima sono quelli che hanno l'incarico di stimare il rischio dell'evento, mentre le altre discipline (per esempio economia, ingegneria) devono essere portate ad esercitarsi nella stima della conseguenza e dei costi della mitigazione del rischio o quelli di adattamento ad esso.

Nel valutare la componente del rischio dell'evento del cambiamento climatico, abbiamo, direi, un forte obbligo professionale di stimare e descrivere l'intera probabilità di distribuzione al meglio delle nostre capacità. Ciò significa parlare non solo della distribuzione media più probabile, ma anche della probabilità più bassa di rischio di coda di fascia alta, perché la funzione di conseguenza lì è molto alta. Per esempio, ecco una stima della probabilità di distribuzione della temperatura media globale risultante da un raddoppio del CO2 in relazione ai suoi valori preindustriali, costituito da 100.000 simulazioni utilizzando un modello integrato di valutazione. (Usiamo questo come illustrazione ; non dev'essere visto come la stima più aggiornata delle probabilità di aumento della temperatura globale).


Figura da Chris Hope, Università di Cambridge.

Più o meno in accordo col più recente rapporto del IPCC, il “mezzo più probabile della distribuzione va da circa 1,5°C a circa 4,5°C, mentre c'è una probabilità di circa il 5% che gli aumenti di temperatura siano meno di circa 1,8°C e di più di circa 4.6°C. Ma, dato che le distribuzioni corrispondenti di piogge, tempeste, aumento del livello del mare, ecc., il 5% di fascia alta potrebbe essere così consequenziale, in termini di risultato, da essere a ragione definita catastrofica. E' vitalmente importante che trasmettiamo questo rischio di coda, così come le conseguenze più probabili. 

Ma ci sono pregiudizi culturali forti contro qualsiasi discussione di questo tipo di rischio di coda, almeno nel regno della scienza del clima. La paura legittima che il pubblico interpreti  qualsiasi discussione sul rischio di coda come un tentativo deliberato di spaventare le persone e spingerle ad agire, o di ottenere qualche altro obbiettivo ulteriore o nefasto, è sufficiente per far sì che quasi tutti gli scienziati si sottraggano a qualsiasi discorso sul rischio di coda e rimangano attaccati al terreno sicuro della distribuzione della probabilità media. L'accusa di “allarmismo” è piuttosto efficace nel rendere gli scienziati timorosi nel trasmettere il rischio di coda e parlare della coda della distribuzione è una ricetta sicura per essere etichettati in tal modo.

Prevedibilmente, la dichiarazione della AAAS ha evocato proprio tali risposte. Per esempio, nel suo blog sul clima (link), Judith Curry dichiara che “ …questi particolari esperti sembrano più allarmati degli esperti autori del rapporto del IPCC (be', del WG1 comunque), citando molti eventi di probabilità molto bassa come qualcosa di cui essere allarmati... Quando gli scienziati diventano allarmisti, non credo che questo aiuti l'opinione pubblica”. E questo, di Roger Pielke (Senior): “Questo rapporto della AAAS è imbarazzante per la comunità scientifica”.

Judy Curry ha ragione nel dire che il Gruppo di Lavoro 1 del IPCC (WG1) evita quasi del tutto il problema del rischio di coda (che è uno dei motivi per i quali l'AAAS si è sentita costretta a farlo) e il dottor Pielke e la Curry parlano per molti scienziati esprimendo la paura dell'imbarazzo nella discussione di eventi di bassa probabilità. Dopotutto, per loro stessa definizione, tali rischi è improbabile che siano un risultato. Se vogliamo essere ammirati dai nostri discendenti, la migliore strategia è quella di attenersi al picco della distribuzione della probabilità e, con la probabilità alta, possiamo quindi ridicolizzare qegli “allarmisti” che hanno avvertito riguardo ai rischi di coda, proprio come l'adulto che ha consigliato alla bambina di attraversare la strada, con tutta probabilità sarà in grado dopo il fatto di castigare quello che ha consigliato in modo contrario. 

Eppure, il detto che dice di dire “la verità, tutta la verità e nient'altro che la verità” non si applica agli scienziati del clima? Se omettiamo la discussione sul rischio di coda, stiamo davvero dicendo tutta la verità?

Finora è stato difficile quantificare il rischio di coda oltre quello implicato da figure come quella sopra, che è il risultato di un modello integrato di valutazione fatto funzionare molte volte con molte combinazioni di parametri variati attraverso gamme plausibili. Abbiamo anche provato ad usare dati paleoclimatici e la risposta osservata del clima a grandi eruzioni vulcaniche per ridurre la distribuzione della probabilità. Un jolly nella valutazione del rischio climatico è il problema del cambiamento climatico improvviso ed irreversibile, le cui prove nelle carote di ghiaccio e nei sedimenti delle profondità marine suggeriscono che siano caratteristiche delle variazioni climatiche passate. Dobbiamo anche essere consapevoli che il grafico sopra e molti studi di valutazione del rischio usano il canonico raddoppio del CO2 come riferimento, mentre siamo attualmente avviati a triplicare il contenuto di CO2 per la fine di questo secolo. (Come misura approssimativa del cambiamento globale della temperatura in caso di triplicazione del CO2, moltiplicate i valori sull'asse orizzontale della figura per 1,5). A meno che non troviamo un modo per estrarre carbonio dall'atmosfera, i rischi climatici diventerebbero alti in modo allarmante (e non solo nelle code) nel 22° secolo, anche se fermassimo le emissioni per la fine di questo secolo. 

Non abbiamo un obbligo professionale di parlare di tutta la distribuzione della probabilità, date le dure conseguenze alle code della distribuzione? Io credo di sì, nonostante il fatto che ci esponiamo all'accusa di allarmismo e al conseguente rischio di ridurre la nostra credibilità. Si potrebbe sostenere che dovremmo stare zitti sul rischio di coda e conservare la nostra credibilità come garanzia contro la possibilità che un giorno la capacità di parlare con credibilità sarà assolutamente cruciale per evitare il disastro. Cosa ne pensate voi lettori?

- Altro su: http://climatechangenationalforum.org/tail-risk-vs-alarmism/#sthash.nHRRYjwB.dpuf 

sabato 31 maggio 2014

IL DESTINO DELLE SOCIETÀ È INELUTTABILE O DIPENDE DALLE SCELTE UMANE?

  In questo articolo Jacopo Simonetta esamina qualitativamente gli elementi principali del "sistema mondo", arrivando a conclusioni molto simili a quelli a cui erano arrivati gli autori dello studio "I Limiti dello Sviluppo" nel 1972. In sostanza, l'economia umana (e la civilizzazione che ne dipende) sono condizionati dalla disponibilità di risorse naturali a buon mercato. Con il loro graduale esaurimento inizia una fase "catabolica" di declino che ci porta....... beh, difficile dire dove esattamente, ma da qualche parte dove probabilmente non vorremmo andare (UB)

 

di Jacopo Simonetta

 

Premessa.

Due degli storici moderni più interessanti e controversi sono Oswald Spengler  e Arthur Toynbee.   Entrambi condividevano una visione della storia come strutturata da una serie di cicli di nascita, sviluppo, decadenza e morte delle civiltà e degli imperi, per molti aspetti simile al ciclo della vita umana.

In due autori discordano tuttavia su di un punto fondamentale.   Schematizzando al massimo, secondo Spengler il fosco destino dei popoli dipende da una ineluttabile legge naturale.   Secondo Toynbee, viceversa, il destino delle civiltà dipende fondamentalmente dalla capacità delle classi dirigenti di capire i cambiamenti in corso ed adattarsi ad essi; una capacità che in gran parte dipende dalla religione che anima le società.

Fortemente criticata ed anche ridicolizzata da molti degli storici successivi, almeno in parte, questa visione appoggia però su solide basi scientifiche.   Le società umane sono infatti sistemi viventi altamente integrati, ossia, in termini fisici: “strutture dissipative complesse” (Prigogine  La fine delle certezze, 1997).  Ciò significa che assorbono bassa entropia e scaricano alta entropia nel loro ambiente; il prodotto di questo flusso è la Vita che ha un’intrinseca tendenza alla crescita ed alla complessità.   Può questo avere a che fare con i cicli storici evidenziati dai due celebri e contestati autori?

La questione è importante perché, se affidabile, una simile impostazione avrebbe un enorme valore nella valutazione delle situazioni attuali e delle scelte da compiere.

Non essendo uno storico, ma un ecologo, ho tentato di affrontare il problema in termini di flussi e di equilibri, rielaborando un’idea esposta da John Michael Greer nel suo libro “The long Descent” (New Society Publishers 2008). Nei ristretti limiti imposti da un articolo di questo tipo darò un riassunto dell’idea e dei risultati cui porta, nella speranza di raccogliere osservazioni utili a migliorare il lavoro.

Il modello.

Punto di partenza è il modello proposto da H Daly per spiegare la “crescita antieconomica".   Rimandando al link per la spiegazione, qui mi preme ricordare che la crescita economica è soggetta alla ben nota “legge dei ritorni decrescenti”, il che significa che ogni ulteriore passo di crescita comporta un risultato inferiore ed un costo maggiore rispetto al precedente.   Ne consegue che, mentre a sinistra del punto “b” (linea rossa) la crescita economica comporta più vantaggi che svantaggi (naturalmente dal punto di vista di chi cresce), a destra di tale punto ogni ulteriore crescita economica impoverisce, anziché arricchire la società.

Il punto che ho cercato di investigare è se l’attraversamento di questa “linea rossa” dipende dalla forza ineluttabile dei fatti, oppure deriva da scelte umane deliberate.

Nel tentativo di schematizzare al massimo, ho utilizzato 6 riserve (stock), un processo, 9 flussi (flow):

Per semplicità grafica, le 6 riserve sono riunite nei seguenti 4 box.

  • BOX 1: popolazione e capitale (riserve con tendenza alla crescita esponenziale).Ovviamente le persone non sono oggetti, ma in questa sede popolazione e capitale reale (ad es. costruzioni, sistemazioni fondiarie, infrastrutture, istituzioni, ecc.) sono accomunabili per alcune caratteristiche: entrambi hanno una tendenza alla crescita esponenziale, ma la crescita economica favorisce anche la crescita demografica e la crescita demografica stimola quella economica.   Inoltre, sia il capitale (comprensivo della tecnologia) che la popolazione possono agire in modo da aumentare il tasso di sfruttamento delle risorse, ma richiedono un costante investimento per il proprio mantenimento e per il necessario rinnovamento.
  • BOX 2 – finanza (riserva con tendenza alla crescita esponenziale).   Comprende il denaro in ogni sua forma (titoli, debiti, crediti, conti bancari, ecc.) comprese le banconote (circa il 3% della massa monetaria globale), ma esclusi i metalli preziosi.   Perlopiù la finanza agisce tramite il credito/debito che può consentire di incrementare il capitale reale nel caso in cui gli investimenti diano un rendimento eccedente l’interesse passivo al netto di costi, esternalità, ammortamenti, inflazione,  ecc.  Viceversa, consuma capitale nel caso di investimenti il cui rendimento netto sia inferiore all'interesse passivo.  
  • BOX 3 – Rifiuti (riserva senza tendenza endogena alla crescita).   L’insieme di tutti gli scarti solidi, liquidi e gassosi dei processi di estrazione, trasformazione ed uso, oltre che della consunzione del capitale.   L’accumulo di rifiuti (inquinamento) ha effetti negativi sia sulle risorse rinnovabili che sul capitale e la popolazione.
  • BOX 4 – Risorse rinnovabili e non rinnovabili. (riserva con una parziale tendenza al recupero di quanto prelevato).   Comprende le risorse non rinnovabili (ad es. minerali, idrocarburi, ecc.) e quella rinnovabili (ad es. acqua, biomassa, biodiversità, ecc).   Le seconde hanno una tendenziale capacità di recupero, ma solo se sfruttate largamente entro i limiti del loro rinnovamento.   In caso di sfruttamento superiore alla capacità di recupero tendono all'esaurimento e poiché questo è il caso generale oggi le due riserve possono essere accomunate.

Il processo considerato è:
  • Produzione.   Rappresenta l’insieme di tutti i processi di trasformazione delle risorse in beni e servizi.   Parte della produzione diventa nuovo capitale, parte va a manutenzionare o rimpiazzare il capitale usurato, parte diventa generi di consumo; in tutti i casi prima o poi diviene rifiuto. Ho qui mantenuto il termine economico “produzione” per semplicità, ma è bene ricordare che, quando si tratta di processi industriali, la realtà fisica è che si dissipa energia per trasformare risorse in beni destinati a diventare rifiuti o servizi destinati a svanire con la loro erogazione; un processo irreversibile. L’agricoltura potrebbe invece essere considerata come un’attività effettivamente produttiva, se non fosse per la quantità di energia fossile che dissipa che pone la maggior parte delle attività agricole nello stesso ruolo degenerativo dell’industria..

    I principali flussi (flow) che ho preso in considerazione sono dunque i seguenti:
    • Flussi di materia ed energia da risorse, capitale e popolazione a rifiuti. (frecce nere).   Tutto ciò che viene prelevato in natura ed utilizzato per realizzare beni e servizi attraversa il sistema e diviene  rifiuto; rapidamente per i beni di consumo e gli scarti di lavorazione, lentamente per il capitale.   
    • Quota di produzione dedicata a nuovo capitale (freccia azzurra).   Rappresenta i beni duraturi che vanno ad integrare il capitale reale (nuove macchine, costruzioni, sistemazioni fondiarie, organizzazioni, tecnologia, ecc).   
    • Quota produzione dedicata a manutenzione del capitale esistente (freccia marrone).   Rappresenta la quantità di beni e servizi dedicata alla manutenzione ordinaria e straordinaria del capitale reale (dalla sostituzione dei pneumatici usurati, fino alla ricostruzione delle case distrutte dalle tempeste, o delle infrastrutture terremotate)..
    • Quota di capitale dedicata a sostituzione di risorse carenti (freccia gialla).   Rappresenta l’investimento (in termini di beni materiali) necessario per compensare il depauperamento delle risorse.   Notare che non ricostituisce il capitale naturale (tranne che eventualmente e marginalmente per le risorse rinnovabili);  al contrario questo flusso aumenta l’efficienza con cui le risorse esistenti vengono trovate ed estratte, accelerandone dunque il depauperamento.
    • Quota di recupero risorse da rifiuti (freccia verde).   Rappresenta la percentuale di materia che dai rifiuti rientra nel ciclo produttivo, al netto degli scarti di lavorazione, dei materiali aggiunti e del’energia dissipata nel processo.
    • Flusso fra capitale/popolazione e finanza.   Fondamentalmente, il capitale finanziario fornisce denaro sotto forma di credito, mentre dalla popolazione e dal capitare reale tornano soldi alla finanza (comprensiva del Tesoro e della Banca centrale) sotto forma di interessi e tasse.

    Fase Anabolica.

    Ora osserviamo come il modello descriverebbe un’economia lontana dal fatale “Punto b”, sul 
    genere di quella che abbiamo avuto nei “gloriosi 30” e di cui oggi ci sentiamo tanto orfani.   Per analogia con i sistemi viventi, la ho definita “Fase anabolica”.

    In un’economia in fase di crescita reale (tratto di curva alla sinistra del punto “b”),  le risorse sono sovrabbondanti rispetto alla domanda, cosicché l’impiego di capitale per procurarle è modesto.    Una gran parte della produzione va in nuovo capitale la cui crescita consente un aumento di produzione e così via, innescando un processo di crescita esponenziale.   La quota di produzione dedicata al mantenimento del capitale è limitata per la relativa modestia del medesimo e per la relativa giovinezza di gran parte di esso.
    Anche la popolazione cresce ed è quindi prevalentemente giovane, il che significa che è molto produttiva e poco bisognosa di cure ed assistenza, mentre è avida di incrementare il proprio capitale (case, automobili, ecc.).   La crescita crea continuamente opportunità di lavoro e la disoccupazione è bassa.

    L’indebitamento è molto minore del capitale prodotto ed i rendimenti sono superiori ai costi complessivi, cosicché la finanza alimenta la crescita del capitale reale che alimenta la crescita della finanza con andamento parimenti esponenziale.

    La concorrenza è moderata perché il mercato è in espansione.

    La produzione di rifiuti è relativamente modesta per l’alta qualità delle risorse utilizzate e per le dimensioni relativamente contenute di popolazione, capitale e processi produttivi, mentre le capacità rigenerative degli ecosistemi sono sostanzialmente integre.   Di conseguenza l’inquinamento può provocare anche danni ingenti, ma di portata locale.   Il riciclaggio è assente o quasi perché il costo delle materie prime è basso.

    In sintesi, il sistema si espande creando nuove opportunità e quella sensazione di ottimismo caratteristica dei popoli in questa fase della loro storia.

    Il flusso di entropia aumenta con il crescere dei flussi di materia ed energia.   E’ un po’ come se, dal punto di vista termodinamico, man mano che l’economia cresce ed i flussi aumentano, il tempo accelerasse ed il sistema invecchiasse.

    Fase Catabolica.

    Vediamo ora come il modello descrive un’economia in prossimità del “punto b”, tipo quella che abbiamo oggi e dalla quale siamo tanto impazienti di uscire.   Ho battezzato questa fa se “Fase catabolica”, sempre per analogia con i sistemi viventi.

    Alcune risorse chiave sono scarse rispetto alla domanda, cosicché l’impiego di capitale per procurarle, o sostituirle, cresce esponenzialmente (ad es. maggiori costi per ricerca, estrazione, ecc.) e viene così distolto dalla produzione di nuovo capitale e prodotti di consumo.

    Il flusso di risorse verso la produzione è maggiore perché più grande è l’economia che deve alimentare, ma la loro qualità diminuisce ed il costo finale sale (N.B. costo e prezzo hanno fra loro rapporti complessi).  Il capitale reale è molto maggiore, ma più vetusto e gran parte di esso viene dirottato al rimpiazzo delle risorse ed al pagamento del debito.

    L’ammontare del debito cresce più rapidamente del capitale, cosicché parte crescente dei redditi è destinata al pagamento di interessi passivi e tasse.   Il ricorso a nuovo debito diviene necessario per i nuovi investimenti, il cui rendimento netto si riduce però progressivamente (“Ritorni decrescenti”).    In pratica, si copre il debito in scadenza mediante nuovo debito che darà un rendimento reale progressivamente inferiore a quello precedente.     La finanza sviluppa delle retroazioni interne che cortocircuitano il sistema reale.   Ciò provoca un aumento esponenziale della massa monetaria con conseguente sviluppo di bolle speculative e crescenti rischi di iper-inflazione.   In sintesi, da simbionte le finanza diviene parassita dell’economia reale.

    La competizione è accanita perché gli spazi di mercato si riducono ed i margini di utile si assottigliano, questo porta a strategie di mercato particolarmente nefaste come l’obsolescenza programmata, la pubblicità ingannevole, la corruzione, lo sfruttamento del personale, ecc. Quote crescenti di produzione vanno in rifiuti per la minore qualità delle risorse (aumento del fardello o zaino ecologico), mentre parte crescente della produzione va in mantenimento di un capitale molto più grande, ma meno produttivo.   Ciò nondimeno, la manutenzione non è generalmente sufficiente ed il capitale si degrada (ad es. parte dell’industria mineraria cinese o la rete stradale italiana).   La produzione di rifiuti da capitale cresce più rapidamente del capitale perché non tutto il capitale reale è destinato alla produzione, mentre tutto il capitale invecchia e si degrada. Si sviluppa il riciclo dei rifiuti con effetti positivi, ma insufficienti perché i flussi di risorse richiesti sono troppo elevati e perché anche le filiere dei rifiuti producono nuovi rifiuti ed entropia, sia pure in misura minore.
    In alcuni casi (ad es in Europa ed in Cina), la natalità diminuisce, ma la popolazione continua ad aumentare per il prolungarsi della vita madia e/o dell’immigrazione.

    Aumentano la disoccupazione cronica e la povertà, mentre i sistemi di “welfare” entrano in crisi e la classe dirigente perde di credibilità.   Si diffondono e radicalizzano quindi sentimenti quali la rabbia, la paura e la disperazione che sfociano generalmente in violenza che, normalmente, porta a distruzione sia di persone che di capitale, ma il secondo in misura molto maggiore.    Se, come solitamente accade, almeno parte del capitale distrutto era produttivo, alla fine la società si trova ad essere più povera ed a dover devolvere una quota ancora maggiore di produzione alla ricostruzione di parte del capitale perduto; una cosa possibile solo nella misura in cui sono ancora disponibili le risorse necessarie.

    Come sintetizzato nello schema di Daly, in fase catabolica l’economia diviene “un gioco a somma negativa” in cui ogni incremento dell’attività economica provoca danni indiretti superiori ai vantaggi diretti che procura (crescita anti-economica).   Ciò non impedisce che determinati soggetti possano continuare a crescere, solo che lo fanno a spese di altri.   Ne sono esempi i paesi in crescita malgrado la crisi globale, o le aziende altamente redditizie nei paesi in crisi, i professionisti di successo nei settori che licenziano. Il simbolo sullo sfondo indica che il flusso di entropia continua ad accelerare poiché il flusso di materia/energia è aumentato, mentre la qualità della vita è mediamente diminuita, un po' come se il sistema invecchiasse più rapidamente.

    In questa fase, il controllo politico del sistema diviene progressivamente più difficile, perché la situazione degenera ad un ritmo progressivamente accelerato, obnubilando le capacità di reazione di governi ed imprese, perlopiù concentrati sui problemi finanziari e sociali immediati, mentre i fattori più critici sono altri.   In particolare:

    - La quota di capitale dedicato alla sostituzione delle risorse cresce in misura superiore al reperimento delle medesime.   Si ha quindi un aumento dei costi ed una diminuzione del tenore di vita.

    - Gli impatti negativi dell’inquinamento sulle risorse, il capitale e la popolazione aumentano anche se l’economia decresce, sia per la longevità dei fattori inquinanti principali, sia per l’allentamento dei vincoli di legge, sia per l’incapacità degli ecosistemi fortemente degradati ad assorbire rifiuti (ad. esempio, la ridotta capacità di foreste e suoli degradati nell'assorbire CO2);

    - Crescono esponenzialmente la massa monetaria e gli interessi passivi da pagare alla finanza: due fattori che, combinati e sinergici, con facilmente scatenano un inflazione che distrugge stipendi, pensioni e risparmi.

    - Contemporaneamente, la diminuita capacità di consumo della popolazione può provocare deflazione: un fenomeno capace di far collassare molto rapidamente il sistema economico.

    - Si moltiplicano le azioni violente e/o illegali: dalla corruzione, alla criminalità, dalle sommosse alle guerre.   Tutti fenomeni che aumentano rapidamente l’entropia del sistema.

    Collasso.

    Man mano che la fase catabolica procede erodendo le riserve (risorse disponibili e capacità di assorbimento dei rifiuti), il sistema diviene sempre più instabile, finché un incidente qualsiasi non ne provoca l’arresto.    A quel punto, tutti i sistemi di retroazione che hanno alimentato la crescita alimentano la decrescita e si ha una progressiva distruzione di popolazione, oltre che di capitale sia reale che finanziario.   Un processo che può avere esiti molto diversi poiché ogni giorno che il carico complessivo (popolazione x consumi pro-capite) rimane al di sopra della capacità del sistema, questa si riduce.  
    Ne consegue che più rapidamente avviene il declino, prima le curve si re-incroceranno e migliori saranno le condizioni di chi rimane.   Viceversa, se la capacità di sfruttare le riserve residue rimane sufficiente a rallentare il declino, la capacità di carico può anche giungere a zero, provocando l’estinzione della popolazione.
    Naturalmente, in un sistema della vastità e complessità come quelle della Terra, ciò potrebbe verificarsi in alcune zone, ma non dovunque.

    In sintesi, il modello è coerente con gli scenari disegnati da Word3 e con la “crescita anti-economica” di Daly, ma aggiunge che, una volta giunti in prossimità del punto di equilibrio, il fatale passaggio diviene pressoché inevitabile per l’inerzia del sistema (qualcuno, genialmente, la ha chiamata la “sindrome di wile coyote”).   Inerzia che dipende da numerosi fattori sinergici:

    • Resistenza della popolazione e della classe dirigente ad accettare sacrifici sempre più grandi man mano che la situazione peggiora.
    • Triplice retroazione positiva fra popolazione e capitale: ognuna ha una tendenza innata alla crescita esponenziale; più sono ognuna forzante della crescita dell’altra.  

    • Capitale e popolazione possono continuare a crescere anche dopo che il punto di equilibrio sia stato superato erodendo le riserve di risorse e la stabilità degli ecosistemi.   Una possibilità tanto maggiore quanto più le riserve sono consistenti ed il progresso tecnologico ne consente uno sfruttamento via via più aggressivo ed efficiente (ad es. l’uso dei satelliti per guidare le flotte pescherecce o di bulldozer giganti per cavare carbone).   

    Ogni aumento del flusso dalle risorse verso la produzione si risolve però in un aumento del capitale, della popolazione e dei rifiuti, posticipando quindi il collasso, ma rendendolo più grave.   Una conclusione analoga a quella raggiunta già nel 1970 dal gruppo di lavoro che elaborò Word3.

    Conclusioni.

    Tornando a Spengler versus Toynbee, il modello suggerisce che, sostanzialmente, avessero entrambi ragione, ma in fasi diverse del processo.   Risulta infatti probabile che una dinamica intrinseca effettivamente esista e che, tendenzialmente, favorisca lo sviluppo e la decadenza delle civiltà, ma con regole in parte diverse a seconda della fase.    Durante la fase anabolica, infatti, sono possibili molte scelte alternative, fra cui quella di limitare volontariamente il proprio sviluppo.   Dipende quindi dalla lungimiranza, sensibilità e capacità politica della classe dirigente di rallentare, modificare od accelerare il processo.    Viceversa, una volta iniziata la fase catabolica, i gradi di libertà della società si riducono rapidamente e, molto presto, una qualche forma di collasso diviene inevitabile.   

    Siamo già a questo punto?   A livello globale con ogni probabilità si, ma la diversificazione delle situazioni locali lascerebbe, ritengo, dei margini di manovra; se non per evitare il collasso, perlomeno per mitigarlo.   Purtroppo, questo richiederebbe di ridurre contemporaneamente sia l’accumulo di capitale, sia la popolazione, pur mantenendo una struttura demografica relativamente giovane.
    In pratica, questo significherebbe falcidiare le posizioni di privilegio, aumentare le tasse e tagliare drasticamente tanto le pensioni quanto i fondi alla sanità.   Cioè proprio il tipo di cose massimamente impopolari fra tutte le classi sociali (sia pure per motivi diversi) ed a buon diritto, poiché sono quelle che maggiormente e direttamente riducono la qualità materiale e la durata della vita dei cittadini.   
    In definitiva, il problema è quindi che i pochi provvedimenti che sarebbero efficaci nel mitigare le condizioni nei decenni a venire avrebbero dei forti impatti negativi nell'immediato.   Viceversa, provvedimenti efficaci nel mitigare la situazione presente avrebbero ricadute negative in futuro.    

    Alla fine, quello che sta accadendo è forse l’unica via di uscita davvero possibile.   Quanto prima la violenza inutile, la malavita e le crisi finanziarie riusciranno a grippare la mega-macchia economica globale, tanto più facilmente i discendenti dei sopravvissuti potranno ricostruirsi una vita decente e, fra qualche secolo, anche delle civiltà.   Civiltà certamente prive dei gioielli tecnologici (ed energivori) di cui siamo tanto orgogliosi, ma magari ricche di arte e di spiritualità.   Magari si canteranno poemi che narreranno la grandezza di un popolo antico e scomparso, capace di costruire oggetti fantastici e misteriosi le cui rovine disegneranno i paesaggi del futuro ancora molto a lungo.