mercoledì 12 agosto 2015

Shock ambientale e sua gestione politica

Pubblico qui un post che parte da ipotesi e idee abbastanza diverse da quelle che si trovano normalmente su "Effetto Risorse," dove tendiamo a vedere l'esaurimento delle risorse come il motore principale di tutto quello che succede. Mi è parso il caso, tuttavia, di presentare questo post, sia per il suo interesse intrinseco, sia per non continuare a parlarci soltanto fra di noi come facciamo spesso. Questa è la prima parte di un'analisi abbastanza complessa, la seconda seguirà fra breve - UB

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Guest post di "Sergio Barile".

Parafrasi biologica della legge di Thirlwall





(Furthermore there is clear evidence that, although economic growth usually leads to environmental degradation in the early stages of the process, in the end the best — and probably the only — way to attain a decent environment in most countries is to become rich) Beckerman, 1992

1 - Introduzione

Iniziamo dalla tesi: qualsiasi politica verde necessita di risorse economiche, poiché per incidere sulle dinamiche in atto questi investimenti sarebbero enormi, e il beneficio sarebbe collettivo e non monetizzabile immediatamente come profitto, l'intervento pubblico tramite spesa a deficit (G) si configura come lo strumento di politica economica più efficace per raggiungere gli obiettivi richiesti dalla comunità scientifica. Per poter aumentare i budget di spesa è necessario che il PIL cresca, quindi è assolutamente necessario evitare le “riforme strutturali” e favorire stato sociale e piena occupazione. Questi aumentano la domanda aggregata (AD) che, in caso di politiche industriale volte a fini sociali di profilo “ambientale” e la conseguente produzione di beni e servizi a carattere “ecologico”, sarà rivolta al consumo di questi beni e servizi verdi. Dato il “moltiplicatore keynesiano” avremo del nuovo valore aggiunto (incremento del PIL) e la contestuale marginale “decrescita felice” delle esternalità negative. 

Senza “crescita” non ci può essere “decrescita”.

Il limite alla crescita, ovvero il vincolo esterno per il decisore politico di una nazione sovrana, pena instabilità e gravi squilibri, è dato dalla legge di Thirlwall.

Quindi, tranchant, l'ammonimento politico: il movimentismo volto alla sensibilizzazione sulle esternalità negative dell'attività economica è storicamente funzionale alla cosmetizzazione del conflitto tra classi. Ovvero, l'imputare ad un vincolo esterno di natura “tecnica” - in generale esogeno al dibattito democratico - politiche di repressione delle rivendicazioni sociali, è parte di una nota strategia politica per imporre in modo dispotico un ordine sociale al riparo dal processo elettorale.

Tolto il dente, tolto il dolore. (E chi non è disposto a prendere in considerazione questa tesi, può risparmiare il tempo della seguente lettura).

2 – Etica e sistemi complessi

Avendo uno sguardo post-keynesiano sul mondo, Malthus deflette fisiologicamente l'orizzonte economico-sociale che si osserva: insomma, Malthus è parte della propria cultura.

Non si può far la medesima affermazione relativamente a quella che viene definita “teoria neo-malthusiana”, a dispetto del nome. 

Se Keynes supportava la necessità di una stabile o positiva crescita demografica, perché individuava nella domanda aggregata il fattore di crescita economica, l'approccio neo-malthusiano, come da tradizione neo-liberale, sulla falsa riga della "trickle-down theory", sostiene che è l'accumulazione del capitale il motore della crescita economica, e che il declino demografico porta ad una crescita del reddito procapite. 

Quindi, perdonando la brutale banalizzazione, se le risorse sono finite, e il paradosso di Jevons scoraggia dalle aspettative progressive dell'evoluzione tecnologica, i lavoratori delle prossime generazioni – con le buone, ovviamente – devono gentilmente smettere di prolificare e consumare. Per il bene delle generazioni future, si intende.

Come Keynes, assumiamo in questa riflessione che l'ipotesi del limite delle risorse sia corretto, e che l'obiettivo sia convergere ad uno stato stazionario, dove demografia e consumo di energia siano in equilibrio, e il “benessere” procapite sia ottimizzato.

Secondo una prospettiva neo-malthusiana, poiché è chi più accumula capitale che contribuisce allo sviluppo economico e spirituale della società, e questo “benessere” ricade – trickle-down - sui nipotini poveri dei sopravvissuti “alla purga demografica”, il benessere del povero sta nella sua povertà (chiaramente relativa al ricco, sicuramente una dignitosissima povertà). 
   
(Nota: poiché esiste una forte correlazione tra oil and finance, vi posso assicurare che questa soluzione è stata già presa; sembra che solo ai BRICS non piaccia particolarmente)

Quindi, chi teme la catastrofe non disperi, sarà accontentato: poiché, se la politica democratica è corrotta, allora i corruttori governano. E chi può corrompere ha il capitale per farlo.

Si chiama “globalizzazione”: privatizzazione di tutte le risorse e del patrimonio pubblico tramite la libera circolazione dei fattori della produzione. Insomma, quelneoliberismoche propugna la  trickle-down economy.

D'altronde, come proclamava la Thatcher, “there is no alternative”. Viene fatto per il bene dell'umanità: per sopravvivere può essere necessario amputarsi un braccio...

Io, però, sono egoista, al mio braccio ci tengo e vorrei pensare ai miei nipotini felici che corrono felici in un verdissimo futuro....

Apro un libro di sociologia e, guarda un po', scopro che non esiste solo il “funzionalismo”, la teoria sociologica per cui il codice Manu indiano può essere desiderabile, ma esiste una sterminata letteratura che tratta la prospettiva del conflitto: la solidarietà tende a svilupparsi maggiormente in gruppi sociali omogenei, in base al potere e al prestigio dei suoi membri, questi gruppi formano della classi in perpetuo conflitto: il conflitto per la distribuzione del reddito prodotto.

Potrebbe essere che il limite della crescita sia strumentalizzabile dalla più forte di queste classi? Può esistere una soluzione che porti al risultato che faccia anche gli interessi delle altre classi? Qui ed ora?

Vediamo.

Innanzitutto alcune definizioni e alcuni chiarimenti: il reddito è un “flusso”, ed è funzione dei fattori della produzione, le risorse naturali sono uno “stock”, fanno parte del patrimonio messo a disposizione da nostro Signore all'ingrato genere umano.

La più grande comunità sociale omogenea che permette “solidarietà economica” - ovvero fiscale e ridistributiva -  si chiama Stato nazionale: il reddito di uno stato nazionale si chiama PIL.  

Primo shock: il PIL è una misura che non c'entra nulla con la crescita “materiale” collegata al consumo delle risorse naturali, o meglio, ad esempio, non esiste una correlazione significativa tra PIL e ed energia consumata che sia valida per tutti gli Stati nazionali. A seconda delle metodologie e dei campioni ci può essere effettivamente una causalità bidirezionale, una causalità tra crescita del PIL e del consumo di energia, oppure viceversa.

Italia e Corea, ad esempio (Soytas-Siri, 2003), due modelli di produzione particolarmente simili e virtuosi nel panorama mondiale dalla seconda metà del Novecento, appartengono al terzo gruppo: drastiche politiche di risparmio energetico non impatterebbero particolarmente sulla crescita.

E comunque, in generale, nei Paesi più ricchi è possibile sostenere il PIL con un impatto minimo o nullo sul consumo energetico.

Chi propone la decrescita del PIL, ovvero recessioni, prolungate deflazioni e depressioni, lo fa da un particolare punto di vista di un particolare gruppo di interessi (classe): oil and finance.

I conflitti bellici scoppiano generalmente per due motivi complementari: il dominio delle risorse, e la risoluzione delle crisi di debito. Generalmente due facce della stessa medaglia.

Le “crisi di debito” e la debt-deflation auspicata – non si sa bene quanto consapevolmente – di alcuni “decrescisti”, fornisce al problema malthusiano una risposta immediata: guerre e carestie. Da sempre.

Il paradosso di Jevons e, più in generale, il limite alla crescita, obbliga, a livello di aggregato mondiale, a coordinare le politiche di approvvigionamento delle risorse energetiche... beh, la soluzione delle nostre élite l'abbiamo già intravista, se si vogliono altri chiarimenti basta fare un giro in Iraq, Siria, Libia, Niger, Ucraina, ecc.

Se si evitasse di frammentare le entità politiche straniere, e la si piantasse di cedere sovranità nazionale alla finanza internazionale in patente violazione degli “gli art.11” delle costituzioni democratiche - finanza secolarmente desiderosa di sorpassare l'assetto vestfalico che ha portato alle democrazie e allo stato sociale – si potrebbe pensare di tornare ad avere una  politica industriale che non sia... il suo semplice smantellamento.  
  
In tal caso, il decisore politico, con pieno controllo di una banca centrale controllata dal Tesoro, ministero espressione della sovranità democratica, ogni decisore politico, per affrontare  gli eventuali shock  a causa dell' LtG, dovrebbe guidare nella tempesta la propria comunità sociale di riferimento: i suoi elettori.

Ora, una premessa: il sistema sociale integrato nella “biosfera”, non è semplicemente un sistema complesso. È un sistema umano.

Quindi, che uno scienziato possa considerarlo semplicemente come qualsiasi sistema biologico, da integrare nella complessità del nostro pianeta, beh, è comprensibile ma non assolutamente da dare per scontato.

Quindi, da un punto di vista politico, ovvero di gestione delle risorse, propongo una precisa etica che faccia da vincolo interno al decisore (più o meno...) istituzionale: ovvero, tra “i vari rubinetti del sistema complesso”, le infinite soluzioni per regolare questo sistema sono ordinate rispetto ad una specifica scala di valori, di cui la dignità dell'Uomo è valore incomprimibile. Astratti ideali? Falsa propaganda da ingegneria sociale? Vediamo.

Innanzitutto abbiamo già tracciato una scala operativa per cui, tra gli infiniti punti di vista, e, tra tutte le “leve e i rubinetti” su cui si può agire, tende a diminuire “l'ordine di grandezza” della azioni possibili. Secondo, una riflessione: un sistema umano è condizionato da un inaspettato fattore: l'Uomo. Quest'etica non è condivisa, e la politica è, in primis, gestione del conflitto (possibilmente in un'aula parlamentare).

Hayek, “padre nobile” della terza globalizzazione (questa), taglia la testa al toro: i sistemi sociali sono troppo complessi per essere gestiti, quindi, apparentemente rifiutando il tipico approccio positivista, propone di non stare a impazzire su questi “sistemi complessi” cercando di governarli tipo URSS, ma di far sì che la selezione darwiniana del mercato potesse, liberata, gestire efficacemente la complessità. Insomma, leggasi Iraq, Siria, Libia, Niger, Ucraina, ecc. Vedi sopra.

In effetti, quella di vedere il sistema sociale come un sistema complesso, rappresentabile da un numero indefinito di “equazioni differenziali”, è un approccio di tipo squisitamente positivista.

Proviamo invece, secondo queste premesse, a dividere il sistema globale che risponde all'LtG come se fosse un organismo costituito da cellule separate da membrane.

Innanzitutto faccio notare che quel sistema complesso a bassissima entropia chiamato Uomo si fa (generalmente...) coordinare dal suo “capo” senza troppe equazioni: un insieme etnicamente omogeneo di uomini si chiama ethnos, un insieme di ethnos che – per omogeneità – può condividere un patto sociale si chiama demos. Ogni demos è un'identità politica che esercita un arbitrio similmente al processo decisionale dell'individuo. Lo Stato nazionale è, in generale, la sua espressione giuridica.

Le “cellule” formano così “tessuti” e “organi” che compongono la macchina vivente  e cognitiva del nostro pianeta, tutti sistemi complessi di differente ordine.

La vita è conservata dall'eterogeneità e dai ruoli: le membrane, regolando flussi e scambi, garantiscono questa eterogeneità, e, in definitiva, la vita.

Membrane troppo “impermeabili” generano la “necrosi dei tessuti”, membrane troppo “aperte” gerano lo “sfaldamento” dell'organismo.

Bene: nei sistemi umani, queste “membrane” sono le “frontiere/dogane” delle comunità sociali che si autodeterminano: in genere, gli Stati nazionali. 

I “flussi” sono i fattori della produzione, e, di questi, il lavoro è l'attività anti-entropica per eccellenza.

Per governare questi “flussi” e raggiungere a livello globale l'obiettivo di sostenibilità come prefissato inizialmente, il decisore politico non dovrebbe “spaccarsi la testa” con enormi sistemi complessi; dovrebbe affidarsi alla scienza che questo genere di complessità, così ridotta, può gestire: l'economia. Ad esempio, il decisore dovrebbe osservare una legge su tutte: quella di Thirlwall. E la comunità internazionale, di converso, dovrebbe far in modo di attuare quel meccanismo per cui ogni nazione raggiunga questo equilibrio che vede nel “vincolo esterno” enunciato da Thirlwall, il limite alla crescita di ogni singola “cellula” che compone il sistema umano, parte dell'ecosistema. Ad esempio, per ottenere questo equilibrio, J.M. Keynes propose il bancor a Bretton Woods (rifiutato dalle élite USA).

Bene, ma cosa è questa “legge” che ogni governo dovrebbe rispettare?

Esiste, oltre al vincolo interno dichiarato in precedenza – ovvero la dignità dell'Uomo che in politica economica si traduce in piena occupazione – un vincolo esterno per cui la crescita di una “cellula” non può essere illimitata (pena il cancro attuale...), ma deve seguire un ritmo di crescita che mantiene “gli scambi” con le altre cellule in equilibrio, e, poiché mediamente quando in percentuale una cellula cresce di “uno”, tende a “succhiare” da tutte le altre  “due”, le membrane vanno regolate in modo da controllare la crescita della cellula.

La politica economica di un Paese consiste, in primis, nel regolare gli scambi per rispettare il vincolo esterno alla crescita: la parafrasi biologica della legge di Thirlwall

lunedì 10 agosto 2015

Arriva il mostro del metano

DaArctic News”. Traduzione di MR

Di Sam Carana

Gli esseri umani non sono mai esistiti nelle condizioni che abbiamo di fronte ora, a prescindere da quanto si risalga nella storia.

Il 4 agosto 2015 sono stati registrati livelli medi globali di metano di 1840 parti per miliardo. Si tratta del livello medio più alto da quando sono iniziati i rilevamenti ed è probabile che questo nuovo record venga presto superato da livelli ancora più alti.

Il biossido di carbonio che viene rilasciato ora raggiungerà il suo impatto di picco fra un decennio. L'alto e immediato impatto del metano lo rende più importante delle emissioni di biossido di carbonio nell'alimentare il tasso di riscaldamento globale nel prossimo decennio.

L'Oceano Pacifico è molto caldo al momento. L'acqua calda scorre dall'Oceano Pacifico attraverso lo Stretto di Bering nell'Oceano Artico. Le temperature di superficie del mare nello Stretto di Bering erano di 20,5°C il 4 agosto 2015. Cioè di 8,7°C più calde di quanto fossero prima. Sono state rilevate temperature di superficie del mare di 11,8°C fra la Groenlandia e le Svalbard il 7 agosto 2015, un'anomalia di 8,5°C.


Il pericolo è che un ulteriore riscaldamento causerà il collasso del ghiaccio marino, che a sua volta porterà ad un riscaldamento ancora maggiore dell'Oceano Artico, mentre la presenza di più acqua libera aumenterà a sua volta la possibilità che si sviluppino forti tempeste che possono mescolare le alte temperature della superficie con quelle del fondo del mare, dando come risultato la destabilizzazione dei sedimenti ed innescando il rilascio di metano che potrebbe essere contenuto in quei sedimenti in grandi quantità.

I rilasci di metano dal fondo dell'oceano Artico minacciano di causare un rapido riscaldamento locale che a sua volta innesca un ulteriore rilascio di metano, in un circolo vizioso di riscaldamento fuori controllo che potrebbe distruggere l'habitat degli esseri umani entro pochi decenni.




domenica 9 agosto 2015

Le emissioni di CO2 minacciano una crisi degli oceani

Da “BBC”. Traduzione di MR (via Bodhi Paul Chefurka)

Di Roger Harrabin, analista ambientale della BBC


Un rapporto importante avverte che la vita nei mari verrà cambiata in modo irreversibile, a meno che le emissioni di CO2 della società industriale non vengano tagliate drasticamente.


Gli scienziati hanno avvertito che la vita marina sarà irreversibilmente cambiata a meno che le emissioni di CO2 non vengano tagliate drasticamente.

Scrivendo su Science, gli esperti dicono che gli oceani si stanno riscaldando, stanno perdendo ossigeno e stanno diventando più acidi a causa del CO2. Avvertono che l'aumento massimo di temperatura di 2°C del cambiamento climatico concordato dai governi non impedirà impatti drammatici sui sistemi oceanici. E dicono che la gamma di opzioni si sta riducendo man mano che il costo di quelle opzioni va alle stelle. Ventidue grandi scienziati del mare a livello mondiale hanno collaborato al rapporto di sintesi in una sezione speciale della rivista Science. Gli scienziati dicono che gli oceani sono in grave pericolo a causa della combinazione di minacce collegate al CO2. Credono che i politici che stanno provando a risolvere il cambiamento climatico abbiano dato troppo poca attenzione agli impatti del cambiamento climatico sugli oceani. E' chiaro, dicono, che il CO2 risultato dalla combustione di combustibili fossili sta cambiando la chimica dei mari più rapidamente di qualsiasi altro periodo dall'evento catastrofico conosciuto come la Grande Moria, 250 milioni di anni fa. Avvertono che l'oceano ha assorbito quasi il 30% del biossido di carbonio che abbiamo prodotto dal 1750 e, visto che il CO2 è un gas leggermente acido, sta rendendo l'acqua di mare acida. Ha anche tamponato il cambiamento climatico assorbendo oltre il 90% del calore addizionale creato dalla società industriale dal 1970. Il calore supplementare rende più difficile per l'oceano trattenere l'ossigeno.

'Cambiamento radicale'

Diversi esperimenti recenti suggeriscono che molti organismi possono sopportare il riscaldamento futuro che ci si attende che il CO2 porti, o la diminuzione del pH, o la minore quantità di ossigeno... ma non tutto insieme. Jean-Pierre Gattuso, autore principale dello studio, ha detto: “L'oceano è stato considerato poco nei precedenti negoziati sul clima. Il nostro studio fornisce argomentazioni convincenti per un cambiamento radicale alla conferenza dell'ONU (a Parigi) sul cambiamento climatico”.



Gli oceani sono a forte rischio a causa di una combinazione di minacce

Gli scienziati avvertono che il carbonio che emettiamo oggi potrebbe cambiare il sistema terrestre in modo irreversibile per molte generazioni a venire. Carol Turley, del Laboratori Marino di Plymouth e coautrice, ha detto: “L'oceano è la linea del fronte del cambiamento climatico con la sua fisica e chimica che vengono alterate ad un tasso senza precedenti, tant'è vero che gli ecosistemi e gli organismi stanno già cambiando e continueranno a farlo man mano che emettiamo più CO2. “L'oceano ci fornisce cibo, energia, minerali, medicamenti e metà dell'ossigeno dell'atmosfera e regola il clima e il meteo. Stiamo chiedendo ai legislatori di riconoscere le potenziali conseguenze di questi cambiamenti drammatici e innalzare il profilo dell'oceano nei colloqui internazionali dove, fino ad ora, sono stati a malapena menzionati”. Gli scienziati dicono che è probabile che l'acidificazione alteri la riproduzione, la sopravvivenza delle larve e la loro alimentazione e i tassi di crescita degli organismi marini – specialmente quelli con gusci o scheletri di carbonato di calcio.

Strada pericolosa

Gli autori dicono che quanto diversi fattori di stress lavorano insieme, di tanto in tanto si cancellano a vicenda, ma più spesso moltiplicano gli effetti negativi. Gli esperti dicono che protezione delle coste, pesca, acquacoltura, salute umana e turismo saranno condizionati dai cambiamenti. Avvertono che: “Serve una immediata e sostanziale riduzione delle emissioni di CO2 per impedire impatti massicci e di fatto irreversibili sugli ecosistemi oceanici ed i loro servizi”. Il professor Manuel Barange, direttore del Laboratorio Marino di Plymouth, ha detto: “Il cambiamento climatico continuerà a colpire gli ecosistemi oceanici in modi molto significativi e la società deve prenderne atto e rispondere. Alcuni ecosistemi e servizi avranno un beneficio dal cambiamento climatico, specialmente a breve termine, ma nel complesso gli impatti sono prevalentemente negativi. “impatti negativi sono in particolare attesi nelle regioni tropicali ed in via di sviluppo, aumentando così potenzialmente difficoltà già esistenti in termini di sicurezza alimentare e di mezzi di sussistenza. Ci stiamo permettendo di viaggiare su una strada strada eccezionalmente pericolosa e lo stiamo facendo senza una valutazione delle conseguenze che avremo di fronte”.

sabato 8 agosto 2015

Inizia l'era della grande destabilizzazione: economia e clima sono arrivati a un punto critico.

DaThe Oil Crash”. Traduzione di MR


Di Antonio Turiel

Cari lettori,

questo mese di luglio è finito nel segno del cambiamento, dei grandi cambiamenti che stanno già iniziando a prendere corpo e che segneranno la seconda metà di questo 2015. Nonostante che sui media si pretenda di proiettare un'immagine di tranquillità e serenità, la cosa sicura è che il clima di nervosismo è in aumento. E non c'è da stupirsi, perché la destabilizzazione che abbiamo di fronte non si riferisce solo alla disponibilità di risorse (e di conseguenza l'impossibilità di continuare con questo sistema economico basato sulla crescita infinita), ma anche alla instabilità climatica rapidamente in crescita ed alla non meno emergente instabilità politica. Cominciamo col riassunto di questo mese di luglio 2015.

venerdì 7 agosto 2015

Lezioni dall'ultima volta che è collassata la civiltà

Danpr”. Traduzione di Mr (via Bodhi Paul Chefurka)

Di Adam Frank


Dai templi di Abu Simbel nel sud dell'Egitto, che rislagono al XII secolo AC. iStockphoto

Considerate questo, se volete: una rete di civiltà lontane, potenti e ad alta tecnologia, strettamente legate da scambi e ambasciate diplomatiche; una minaccia di cambiamento climatico in accelerazione e la sua pressione sulla produzione di cibo; un'ondata in aumento di popoli sfollati pronti ad imperversare e sopraffare le nazioni sviluppate. Suona familiare?

giovedì 6 agosto 2015

Bella stronza




Da "Decline of the Empire". La foto rappresenta la signora (per così dire) Sabrina Corgatelli, residente in Idaho, USA, e la giraffa che ha appena ammazzato in Africa. Bella (per così dire) stronza.


PS: la trovate anche su facebook, dove continua a vantarsene

mercoledì 5 agosto 2015

La rete e l’utopia rivoluzionaria.


Di Jacopo Simonetta

La rivoluzione non è una cosa rara nella storia.   Solitamente, quando una società si trova impantanata in difficoltà crescenti e con una classe dirigente screditata, un numero crescente di persone comincia a credere che sia possibile risolvere i problemi rovesciando il potere.  

Qualche volta è andata così, perlomeno in una certa misura; assai più spesso no.

Solitamente, una rivoluzione è uno scoppio di violenza diffuso, quindi un modo per dissipare moto rapidamente una gran quantità di energia, distruggendo nel contempo parte del capitale accumulato in precedenza.   Morti e fuggiaschi, edifici ed infrastrutture danneggiate, denaro ed oggetti d’arte perduti, biblioteche, strutture sociali ed amministrative distrutte, conoscenze e tradizioni dimenticate, eccetera: sono molte le forme sotto cui si palesa un brusco aumento di entropia.

Di conseguenza, al termine di una rivoluzione, la collettività è sempre più povera di quanto fosse all'inizio.   Di solito, il processo è quindi un evento che accelera la decadenza di una società in crisi.   La successione delle dinastie cinesi è emblematica da questo punto di vista.

In qualche caso invece, il ridimensionamento del capitale e della popolazione, nonché il drastico cambio di classe dirigente e di organizzazione, possono effettivamente invertire la tendenza “catabolica” della società.   Ma solo a condizione che sia possibile attingere a nuove risorse e scaricare ad altri l’entropia derivante dalla propria crescita.   Uno dei pochi esempi di questo genere è stata, credo, la “rivoluzione Meiji”.

Questa premessa per dire che non c’è niente di strano se le rivolte aumentano di frequenza ed intensità nelle società contemporanee.   I modi di ribellarsi sono però molto diversi a seconda del contesto.   Ad esempio, abbiamo visto scoppiare numerose rivolte in paesi arabi caratterizzati da un “bubbone giovanile”  particolarmente accentuato, regimi dispotici, risorse in rapido calo e clima in rapido peggioramento.

Nel mondo occidentale il contesto è diverso e l’utopia rivoluzionaria si concentra perlopiù intorno al web.   Molti vedono infatti internet come una tecnologia in grado di affrancare definitivamente i popoli oppressi dal giogo delle grandi multinazionali e dei loro lacchè politici.
Su questo tema la letteratura è immensa, ma mi permetto di segnalare questo articolo perché assai meglio argomentato del solito (le figure sono tratte da esso).

In estrema sintesi, vi si sostiene che, grazie ad internet, si sta sviluppando un’economia fatta principalmente di idee e conoscenze: qualcosa che sfugge ai canoni del capitalismo in seno a cui è nato il web.   L’economia capitalista è infatti basata sulla proprietà privata non solo di materia ed energia, ma anche di idee e conoscenze.   Ciò la rende vulnerabile alla nuova economia in rete che, viceversa, è basata sulla condivisione gratuita di idee e persino di tecnologie e “know how”.   In una prospettiva relativamente prossima, si sostiene, la nuova “economia della conoscenza” avrà relegato il vecchio capitalismo a settori di nicchia, realizzando la più grande e pacifica rivoluzione mai avvenuta nella storia umana.

Sul fatto che internet stia contribuendo a scalzare il capitalismo mondiale direi che l’analisi è sostanzialmente condivisibile.   Viceversa, ho molti dubbi circa la possibilità di sviluppo di una nuova economia in grado di assicurare un avvenire migliore all'umanità.

“Una volta che hai capito in questo senso la transizione, non hai più bisogno di un Piano Quinquennale super-computerizzato.   Bensì di un progetto che abbia lo scopo di espandere quelle tecnologie, modelli di business e comportamenti che dissolvono le forze del mercato, socializzano le conoscenze, eradicano il bisogno di lavorare e spingono l’economia verso l’abbondanza.   Io chiamo questo Progetto Zero perché si propone di raggiungere un sistema energetico con zero carbonio; la produzione di macchine, prodotti e servizi con zero costi marginali e la riduzione del tempo necessario al lavoro il più possibile vicino a zero.”

Un quadro decisamente utopico che vale la pena di commentare.   Ci sono diversi problemi ognuno dei quali richiederebbe un post dedicato; non potendolo fare, mi limiterò a menzionare le questioni che mi paiono principali.

Energia priva di carbonio.   Non viene spiegata la tecnologia, ma probabilmente l’idea si basa sul fatto che spostare tramite la rete idee e conoscenze comporta consumi risibili rispetto a quelli necessari per spostare persone e merci.   Di qui una drastica riduzione dei consumi globali e, quindi, la possibilità di farvi fronte con le sole fonti rinnovabili.   Lo sostengono in molti, trascurando però che la funzionalità del web dipende dall'efficienza di una rete di reti coordinate fra loro: rete telefonica, rete elettrica, reti commerciali, flusso di ricambi ed di energia e molto altro ancora.   Tutte cose che dipendono interamente dal sistema industriale e finanziario che si intende sgominare.

Se è vero che il software può diventare largamente indipendente dalle grandi imprese, non altrettanto vale per lo hardware su cui le informazioni circolano e si conservano.   In pratica, se è vero che internet presenta un’eccezionale resilienza ad alcuni tipi di minacce, è altrettanto vero che risulta estremamente vulnerabile ad altri tipi di stress.   In particolare a tutto ciò che può rendere instabili le reti ed i flussi energetici.   Cioè proprio quella parte della nostra infrastruttura che si sta rivelando più vulnerabile alla crisi energetica in arrivo.    E ricordiamoci pure che l’accesso illimitato, imparziale e quasi gratuito ad internet dipende sia dalla volontà dei governi che delle imprese che gestiscono la rete.   E’ vero che già diversi tentativi di modificare lo status quo sono naufragati, ma niente garantisce che ciò continui a verificarsi in futuro.

Inoltre, ciò che la gente utilizza per vivere è in gran parte molto materiale e non può essere condiviso in rete.    Ma se anche il flusso di informazioni condivise potesse effettivamente sostituire in gran parte il flusso di merci vendute, è molto improbabile che i consumi energetici globali diminuirebbero.

Dall'inizio della rivoluzione industriale ad oggi, l’efficienza dei processi produttivi e di trasporto è aumentata in continuazione, mentre in parallelo aumentavano i consumi globali.   In altre parole, l’esperienza dimostra che man mano che si riducono i consumi unitari, aumentano quelli complessivi (paradosso di Jevons).   Ipotizzare qualcosa di diverso richiederebbe di spiegare come si dovrebbe realizzare una così totale inversione di tendenza rispetto ad una tendenza consolidata nei secoli.

Produzione con zero costi marginali.   Non è molto chiaro cosa voglia dire, ma probabilmente intende l’azzeramento dei costi sociali ed ambientali che, indirettamente, ricadono sulla collettività (esternalità).   In effetti, questo è un punto assolutamente strategico su cui tutti i pochissimi economisti preoccupati dal suicidio collettivo in corso si sono spesi.   Ma è uno scopo perseguibile solo operando contemporaneamente sui due fronti: quello della riduzione dei costi materiali di produzione (sostanzialmente consumi di energia e materia) e su quello dell’aumento dei prezzi al consumo.   Quest’ultimo realizzato tramite una politica fiscale modulata in base agli impatti generati dai processi e dai prodotti.   Insomma qualcosa che sarebbe fattibile solamente da parte degli stati.

Riduzione degli orari di lavoro.   Non è assolutamente chiaro come questo potrebbe verificarsi senza contemporaneamente ridurre il potere d’acquisto dei lavoratori.   Certo, l’articolo ipotizza un’economia strutturata in maniera completamente diversa da quella attuale e quindi, giustamente, sottratta agli attuali meccanismi di mercato.   Ma non spiega quali meccanismi dovrebbero sostituirli. La “condivisione gratuita dell’informazione” è certo un punto importante, ma come questo si potrebbe tradurre in un aumento del benessere a fronte di un minore impegno lavorativo rimane per me misterioso.   Di fatto, i miei conoscenti che lavorano per internet hanno orari molto più massacranti degli operai in fabbrica e degli impiegati al catasto.

Concludendo, l’articolo è interessante e ne consiglio senz’altro la lettura, proprio perché esprime bene opinioni molto diverse dalle mie.   Personalmente, penso che effettivamente internet stia giocando e giocherà un ruolo importante nella decadenza della civiltà industriale attuale.   Rimango invece estremamente scettico circa la sua possibilità di diventare il pilastro di una più florida e democratica civiltà futura.